venerdì 31 maggio 2024

L'uso della propaganda come arma

Articolo pubblicato dalla rivista "Panorama Difesa". Cfr. Cristiano Martorella, L'uso della propaganda come arma, in Panorama Difesa", n. 439, anno XLII, aprile 2024, pp.72-75. 


L'uso della propaganda come arma 

I nuovi conflitti hanno mostrato l'importanza di un'altra dimensione della guerra costituita dalla disinformazione e dall'utilizzo massiccio della propaganda, che può adesso sfruttare un ambiente particolarmente favorevole alla manipolazione e all'inganno. 

di Cristiano Martorella 


Finora non si era mai assistito a un simile dispiegamento dei mezzi della propaganda, con la Russia sempre più scatenata nel sostenere la sua campagna ideologica di odio contro l'Occidente, la Cina agguerrita che rivendica un'egemonia mondiale senza compromessi attraverso dichiarazioni altisonanti e minacce, la Corea del Nord che promette di distruggere completamente i suoi avversari, e infine l'Iran che fomenta il terrorismo con una retorica fanatica, e ha avviato una sconvolgente attività di promozione di aggressioni e attacchi che stanno destabilizzando il Medio Oriente. L'apice di questo lavoro di propaganda senza precedenti è stato raggiunto con le assurde e surreali accuse contro Israele, che dopo aver subito il violento attacco terroristico del 7 ottobre 2023, è stato immediatamente sommerso dalle critiche orchestrate in primis dall'Iran, eppoi appoggiato dalla Russia desiderosa di creare un altro fronte di crisi e scompiglio, e perfino dalla Cina che è ormai sempre schierata contro l'Occidente. Si è quindi ribaltata la verità su quanto accaduto, e Israele è stato trasformato nell'oppressore al quale viene imputata la responsabilità della guerra. Questa narrazione è talmente semplice, e tuttavia tremendamente efficace, da aver condizionato l'opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti, tanto da provocare proteste e manifestazioni a favore del popolo palestinese che dimenticano completamente l'esistenza dei pericolosi e irriducibili terroristi di Hamas e le loro brutali azioni. Si può affermare che mai prima d'ora la propaganda era giunta a tanto, e mai aveva ottenuto simili risultati. Quindi si evince con urgenza la necessità di un doveroso approfondimento sul tema, che affronti l'emergenza di questa "guerra cognitiva" estremamente sottovalutata. 


La costruzione della narrazione 

La prima impennata dell'attività di propaganda e disinformazione è cominciata con l'invasione russa dell'Ucraina (24 febbraio 2022), quando è iniziata la massiccia diffusione di notizie false, ricostruzioni fuorvianti e interpretazioni dei fatti mistificate. Si è avviata così la costruzione di una narrazione favorevole alla Russia, che sostiene tesi incredibili che purtroppo sono divenute molto popolari, e vengono ritenute credibili da una grande parte dell'opinione pubblica. Secondo la narrazione del Cremlino, la Russia sarebbe addirittura stata attaccata dalla NATO, e l'occupazione dell'Ucraina avrebbe avuto lo scopo di prevenire questa aggressione e garantire la propria sicurezza minacciata dal presunto espansionismo occidentale. Inoltre sarebbe avvenuto un cambiamento epocale, con l'instaurazione di un "nuovo ordine mondiale" guidato dalla Russia e dalla Cina, che è però osteggiato fortemente dall'Occidente. Quindi la colpa degli attuali conflitti viene attribuita all'Occidente che non volendo accettare il "nuovo ordine mondiale" starebbe scatenando guerre e disordini. La missione salvifica della Russia avrebbe quindi lo scopo di proteggere la civiltà (identificata con una indefinita "cultura russa") attraverso la "denazificazione" e "smilitarizzazione" dell'Ucraina (ovvero l'eliminazione della democrazia e delle capacità militari), eppoi il ridimensionamento della NATO con lo smembramento dell'Europa ridotta a un gruppo frammentato di stati satelliti dominato dalla sfera di influenza russa. Come è ben noto, il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels (1897-1945) spiegava che ripetendo una menzogna più volte questa diventava la verità, ed è evidente come questo principio sia ancora valido e venga applicato intensamente anche in queste circostanze. La propaganda russa infatti non è mai rallentata, ma al contrario, ha rilanciato accuse e alzato il livello dello scontro. Dopo aver riscritto i libri di storia, cancellando l'esistenza dell'Ucraina come nazione e riducendola a semplice "territorio russo", si è passati alla demonizzazione dell'avversario, e alla denuncia di una presunta rinascita del nazismo in Europa, ritornata ormai ai cupi anni '30 del secolo scorso. Inoltre la Russia ha esposto uno strano e minaccioso discorso sull'impiego delle armi nucleari, sostenendo l'esistenza di una dottrina che le consente di usare per prima queste armi (il cosiddetto first strike). Secondo questa dottrina, la Russia sarebbe legittimata e pienamente in grado di condurre un attacco nucleare con bombe atomiche tattiche, mentre gli avversari sarebbero costretti a non reagire per paura di ritorsioni molto più devastanti. Infatti una risposta sarebbe immediatamente seguita dall'uso massiccio della potenza nucleare russa con conseguenze disatrose. Questa rappresentazione sovverte completamente il concetto di "deterrenza nucleare" che è basato sulla simmetria, ovvero risposte simmetriche ed equivalenti a ogni attacco nucleare. Secondo i russi, invece la paura dovrebbe essere preponderante negli occidentali, che non avrebbero mai il coraggio di usare le proprie armi atomiche, e piuttosto subirebbero inermi l'attacco. Questa idea è surreale, ed è sostenuta soltanto dalla propaganda e dalla convinzione della superiorità russa, e dalla suggestione di una inferiorità morale degli occidentali (incapaci di accettare la sofferenza e quindi di combattere). Ciò dimostra, in ultima istanza, quanto la propaganda sia pericolosa, e possa deformare non soltanto la percezione della realtà nell'avversario, ma anche la propria visione dei fatti. 


Gli studi e le ricerche

La sottovalutazione dell'importanza dell'informazione e della sua manipolazione, costituisce un pericolo che non è ancora sufficientemente considerato dalle istituzioni dei paesi democratici, abituati ad ampie concessioni per quanto riguarda il diritto della libertà di pensiero e parola. Però quando questa libertà viene sistematicamente e continuamente abusata per diffondere notizie false e menzogne, non si può evitare di affrontare il problema per proporre delle soluzioni. Infatti, la questione non riguarda soltanto gli studiosi della sociologia della comunicazione, ma piuttosto dovrebbe coinvolgere direttamente anche politici e militari, perché ciò di cui ci stiamo occupando è in realtà una forma di guerra ibrida, ed è quindi un'attività di aggressione contro il proprio paese. Con l'espressione guerra ibrida si intende una strategia militare che impiega lo sfruttamento delle crisi economiche e politiche, la manipolazione della finanza, la pressione diplomatica, l'influenza dei mass media, e il controllo dell'opinione pubblica per acquisire vantaggi e successi tali da destabilizzare un paese e condurlo alla sconfitta. Il testo che meglio descrive questa particolare strategia è il libro Guerra senza limiti (titolo inglese Unrestricted Warfare) scritto nel 1999 dai cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, e divenuto presto un classico sull'argomento. Secondo i due autori, la strategia militare non dovrebbe limitarsi alle tattiche di guerra e alle azioni sul campo di battaglia, ma agire piuttosto sulle infrastrutture di una nazione per indebolirla e sconfiggerla. Si può quindi operare nel versante economico, impossessandosi delle risorse energetiche e delle materie prime, nella finanza manipolando i mercati e creando delle crisi, e nel settore informatico distruggendo le reti di comunicazione e trasmissione dei dati, e inoltre si può generare confusione nell'avversario attraverso la disinformazione e una campagna di delegittimazione. Questa concezione della guerra non è certo una novità nel pensiero cinese, perché corrisponde in gran parte all'insegnamento esposto da Sun Tzu con L'arte della guerra, che poneva infatti una grande enfasi negli stratagemmi per fornire al nemico informazioni false, per ingannarlo e condurlo alla confusione, e per sottrarre notizie preziose attraverso lo spionaggio. Anche gli studi russi nel settore possono vantare un notevole sviluppo, e in particolare spicca il lavoro dello psicologo Vladimir Lefebvre (1936-2020) che svolse l'attività di ricercatore in Unione Sovietica, elaborando una teoria cognitiva sulle percezioni e le comunicazioni, e le azioni intraprese in base alle credenze individuali. La sua idea più importante è il reflexive control (controllo riflessivo) che permette di influenzare le persone attraverso diversi metodi. Il lavoro di Vladimir Lefebvre ha avuto un'enorme applicazione nel contesto militare, e qui possiamo soltanto riassumere sinteticamente alcune delle sue idee, sapendo di non poter fornire un quadro completo e approfondito a causa dell'ampiezza dell'argomento. I metodi suggeriti sono stati comunque ordinati e descritti da altri studiosi con il seguente elenco: 1) Distrazione (distraction) che consiste nel fornire una percezione sbagliata delle proprie reali intenzioni; 2) Sovraccarico (overloading) che è realizzato fornendo al nemico un numero eccessivo di informazioni contraddittorie; 3) Paralisi (paralysis) ottenuta creando l'illusione di precise minacce agli interessi vitali o a punti vulnerabili; 4) Esaurimento (exhaustion) ottenuto facendo sprecare all'avversario risorse senza ottenere risultati; 5) Ingammo (deception) che costringe il nemico a dispiegare forze in un'area apparentemente minacciata; 6) Divisione (splitting) che permette di separare il nemico dai suoi alleati facendolo agire contro di loro; 7) Pacificazione (appeasement) che consente di abbassare la vigilanza degli avversari, creando l'illusione di attività apparentemente non aggressive; 8) Intimidazione (intimidation) rappresentata dalla creazione di un'apparente superiorità militare e dall'immagine di invincibilità; 9) Provocazione (provocation) ottenuta tramite l'imposizione di uno scenario sfavorevole al nemico; 10) Suggestione (suggestion) che consiste nel fornire informazioni che influenzano la morale e l'ideologia del nemico; 11) Pressione (pressure) ottenuta fornendo informazioni che screditano i governi dei paesi avversari agli occhi dell'opinione pubblica. Non è difficile rintracciare attualmente l'applicazione di questi metodi da parte di russi e cinesi, e non deve nemmeno sorprendere la loro enorme attività nel diffondere informazioni false, creare depistaggi, e manipolare l'opinione pubblica, perché queste operazioni vengono svolte in maniera sistematica e scientifica. Come abbiamo mostrato, esiste un preciso e dettagliato protocollo per queste attività, ma così come viene applicato, dovrebbe essere chiaramente identificato e smascherato dalla controparte. Il motivo perché ciò non avviene con efficacia merita una spiegazione a parte. 


Il contesto favorevole

La spiegazione è semplice e immediata, ed è rintracciabile nel particolare contesto sociale dei paesi democratici che paradossalmente favorisce la disinformazione e la propaganda. Ormai è risaputo quanto i media occidentali siano vulnerabili, fragili e manipolabili, in particolare attraverso l'uso di internet che non fornisce nessuna garanzia di sicurezza, ed è privo di regole efficaci che impediscano la diffusione di notizie false (fake news), divenute un autentico flagello della rete informatica. Nonostante l'argomento sia molto dibattuto, non è stata trovata nessuna soluzione valida perché la natura puramente commerciale del web in Occidente impedisce la limitazione degli abusi, essendo anch'essi fonte di ricavi e guadagni.La natura puramente commerciale del web prevale infatti su altri interessi, e perfino sulla sicurezza nazionale. Se non è affatto auspicabile l'applicazione della censura in società democratiche e liberali, non è però nemmeno accettabile che i cittadini siano manipolati da potenze straniere ostili, capaci di inondare il web con falsità, menzogne e inganni. Un altro aspetto, ancora più grave per la deontologia professionale delle figure coinvolte, è il passaggio della propaganda russa e cinese dal web ai media mainstream, come televisioni e giornali, che sono divenuti in poco tempo gli utili servitori del Cremlino e di Pechino, essendo incredibilmente solerti nel ripetere la narrazione costruita dalla propaganda russa e cinese. Inoltre la disinformazione veicolata dai mass media si è congiunta al fenomeno preesistente del populismo che approfittando dei luoghi comuni e degli stereotipi, quasi sempre falsi, ma fortemente radicati nella mentalità degli individui, influenza e determina l'orientamento politico. L'argomento era già ben noto nel XIX secolo, quando l'antropologo Gustave Le Bon pubblicò la Psicologia delle folle (1895), poi ripreso e studiato anche da Sigmund Freud nella Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921). Nonostante ciò la sottovalutazione delle capacità di persuasione sugli individui resta pressoché inalterata, e perfino le istituzioni politiche democratiche continuano a mostrare indifferenza per un fenomeno che invece viene attentamente studiato nei regimi autoritari più dispotici, a quanto pare con ottimi risultati. Ciò dovrebbe far mutare radicalmente atteggiamento ai governi, assumendosi la responsabilità di contrastare queste attività in maniera efficace, invece di assistere passivamente all'espansione di questo pericolo.   


La guerra cognitiva

La qualità e la quantità di attività di disinformazione sono ormai arrivate a livelli tali da indurre gli analisti a usare l'espressione "guerra cognitiva" per cercare di definire il fenomeno che ha assunto dimensioni decisamente inaudite e inaspettate. Tuttavia questo fenomeno è nato prima della guerra in Ucraina, e gli studiosi lo avevano già segnalato nel 2020 con l'insorgenza della pandemia di Covid-19. In quella occasione si registrò un'attività di disinformazione senza precedenti, e una incapacità di controllo e verifica delle notizie, tanto grave da costringere gli esperti a usare il termine "infodemia" per segnalare questo caso eccezionale. Con la parola "infodemia" si indica appunto una quantità eccessiva di informazioni, spesso inaccurate o false, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento. In base a questa esperienza, divenuta in seguito una strategia, gli agenti della disinformazione operano per inondare i media occidentali, in maniera pervasiva e ossessiva, con notizie false (fake news) e diffamatorie. Menzogne e semplificazioni che non avrebbero nessun seguito se non facessero appello a quel populismo precedentemente indicato come un humus fertile per questo genere di propaganda, e in grado perciò di far divenire credibile ciò che è invece puerile mistificazione. Un'altra ragione del successo della propaganda è da attribuire al contesto sociale profondamente condizionato dal pensiero postmoderno, tanto da definire quella che i sociologi chiamano "società postmoderna", costituita da una propria organizzazione e con caratteristiche peculiari. Il più importante studioso della società postmoderna è stato il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman (1925-2017), che per definirla meglio utilizzò l'espressione "società liquida", indicando un tipo di società priva di certezze, contraddistinta dalla mancanza di sicurezze, dall'assenza di punti di riferimento, e dall'instabilità continua. L'analisi di Zygmunt Bauman ha permesso agli studiosi di definire un altro concetto sociologico chiamato "post-verità", divenuto molto popolare anche fra i giornalisti. Il termine "post-verità" indica la tendenza nella società contemporanea a non attribuire importanza alla fondatezza di una notizia o informazione. La notizia viene infatti percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna verifica concreta dell'effettiva veridicità dei fatti raccontati. Perciò i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l'opinione pubblica rispetto all'appello alle emozioni e alle convinzioni personali. La "post-verità" si baserebbe dunque sul fenomeno del "bias di conferma" (pregiudizio di conferma), che ignora del tutto i fatti comprovati, estrapolando soltanto gli elementiu che confermano le opinioni già formate. Ogni obiezione verrebbe quindi ignorata, ricorrendo alla reiterazione dell'affermazione degli stessi argomenti, per continuare a rafforzare il feedback emotivo che è il fondamento basilare della "post-verità". 


La teroria dell'informazione

L'analisi del funzionamento psicologico della propaganda mostra che non è possibile contrastarla con il semplice ragionamento logico, e non è affatto sufficiente mostrare le contraddizioni, le incoerenze e le falsità per confutare le affermazioni faziose. Abbiamo infatti evidenziato che la propaganda sfrutta il feedback emotivo aggirando il ragionamento logico, e impedendo un efficace contrasto. Tuttavia la propaganda non è così inarrestabile come potrebbe apparire fin qui, perché finora abbiamo sviluppato soltanto l'approccio psicologico, senza tenere in considerazione che esiste un'altra ulteriore analisi possibile grazie alla teoria dell'informazione. Elaborata dal matematico statunitense Claude Shannon (1916-2001), la teoria dell'informazione offre una definizione quantitativa e computazionale dell'informazione, e permette l'analisi dei fenomeni relativi alla sua misurazione e trasmissione. La formulazione più importante di questa teoria può essere riassunta nella definizione dell'informazione come cologaritmo della probabilità che un simbolo appaia in un messaggio, ma ciò che più ci interessa, dal nostro punto di vista, sono le nozioni di entropia, della qualità dell'informazione e del rumore. Questi ultimi concetti sono fondamentali per capire una criticità della propaganda, e in particolare il rumore che è ciò che può provocare una distruzione del messaggio durante la trasmissione, fino a essere interpretato in modo errato o addirittura non compreso. Siccome, come abbiamo visto in precedenza, la propaganda non ricerca assolutamente la coerenza e la logica, sfruttando invece esclusivamente il feedback emotivo, accade che una quantità eccessiva di comunicazioni contenga informazioni in contraddzione fra di loro. Ed è appunto questo eccesso della comunicazione della propaganda che provoca la stessa distruzione della narrativa della propaganda a causa di una sovrabbondanza di contraddizioni. La narrativa della propaganda non riesce quindi a mantenere una coerenza, e diviene perciò sempre più confusa e incomprensibile. Questa debolezza, mostrata dalla teoria dell'informazione, permette di aprire uno spazio alla comunicazione della verità, ed è perciò necessario approfittare di questa opportunità per fornire l'informazione corretta, impedendo così il mantenimento del canale di comunicazione della propaganda. Come è stato evidenziato, la propaganda è un'arma molto efficace perché può indurre il nemico a non combattere e a farlo rassegnare all'idea della sconfitta, ma può essere un'arma a doppio taglio, e può e deve essere sconfitta rivoltandola contro se stessa. 




sabato 2 settembre 2023

La verità e il luogo

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19. 


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.

di Cristiano Martorella

 

Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel cap.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.

La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).

Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.

Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale “filosofia” (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.

Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo),  ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel “seguire una regola” una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.

 "Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)

 "La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)

 "Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)

 "Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)

 "Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)

 "Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?"  (Della certezza, Par.456)

Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.

 


Bibliografia

Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.

Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.

Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.

Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.

Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.

Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.

Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.

Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.

 

 

 


Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19. 

 




giovedì 10 agosto 2023

Mu il nulla indicibile

Mu, il nulla indicibile 

di Cristiano Martorella

16 maggio 2002. Fra i concetti filosofici esposti dal buddhismo zen, riveste una particolare importanza la singolare concezione del nulla (mu). Molti studiosi hanno evidenziato la profonda differenza fra la concezione orientale del nulla e la definizione occidentale assunta nel mondo moderno. In generale si intende il nulla come mancanza, assenza, o negazione. Queste definizioni non corrispondono al nulla del buddhismo zen.

Hisamatsu Shin'ichi ha dedicato un testo, intitolato La pienezza del nulla, all'analisi delle differenze fra la concezione del nulla propria dello zen e le altre. Hisamatsu distingue alcune interpretazioni del nulla che non corrispondono affatto al nulla dello zen. 

1)  Nulla come negazione della presenza. 

2)  Nulla come negazione del giudizio. 

3)  Nulla come idea. 

4)  Nulla come prodotto dell'immaginazione. 

5)  Nulla come assenza di coscienza. 


Il nulla come negazione della presenza nega l'esistenza di un ente in un luogo o in assoluto. Questa interpretazione del nulla, molto diffusa, si poggia sulla concezione dell'essere come presenza. Ma alcuni filosofi (fra cui Martin Heidegger) hanno contestato questa concezione ritenendola equivoca e limitativa.

In Essere e tempo, Martin Heidegger rintraccia nella filosofia di Cartesio la concezione dell'essere come res extensa semplicemente presente. Come suo contrario viene così definito il nulla, ossia la negazione della presenza. Tuttavia questa definizione risulta insufficiente e fallace. L'essere non può venir inteso soltanto tramite una sua determinazione: la presenza. Così il nulla non può intendersi come l'assenza di una presenza. Si tratta della consueta modalità del pensiero occidentale caratterizzata dal dualismo e dal ragionamento tramite negazioni. Si definisce qualcosa come opposizione e negazione.

Il buddhismo ricorre invece a una grande libertà di associazione poiché ritiene l'essere come una natura immanente. Il pensiero quotidiano, al contrario, rischia di limitare la comprensione del mondo escludendo le infinite possibilità dell'esistenza.

Il nulla come giudizio è semplicemente la negazione di un predicato. Ad esempio, "il serpente non è un mammifero". Si tratta però di un formalismo. Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a qualcosa. Infine conosciamo pochissimo sulla vera natura delle cose.

Il nulla come idea è un'altra astrazione. Quando diciamo che "il nulla non è l'essere" abbiamo soltanto stabilito un'opposizione.

Ci accorgiamo così di conoscere ben poco su concetti che usiamo abitualmente come il nulla e l'essere. Il buddhismo zen riconosce questa nostra ignoranza e l'attribuisce al nostro modo consueto di ragionare. Perciò ritiene essenziale abbandonare gli schemi concettuali prestabiliti. Per far ciò preferisce l'applicazione di metodi pratici come la meditazione, ma non esclude la speculazione utilizzando i paradossi logici (koan) che distruggono ogni rappresentazione intellettuale.

Hisamatsu fa notare come il nulla orientale non corrisponda alla concezione moderna dell'Occidente perché non suppone l'opposizione fra nulla ed essere. Egli ricorda in proposito lo Hyakuron di Daiba: 


"Tutto, essere e non-essere, è nulla. Perciò ogni dottrina buddhista insegna che nella nostra vera essenza tutto, essere e non-essere, è nulla." 


Hisamatsu introduce un altro argomento che ci permette di capire meglio questo punto. Il nulla dello zen non va interpretato come un'entità metafisica oppure ontologica. Perciò si esclude che esso sia l'esistenza o la mancanza di esistenza. L'autentico nulla dello zen è tutto perché è un principio psicologico che permea l'io. Ogni nostra sensazione e conoscenza si trova nell'io che è assoluta illusione, ovvero nulla. In questo senso tutto, davvero tutto, è nulla. Se pensiamo per un attimo di annullare l'io della nostra persona ci accorgiamo che spariscono anche le sensazioni e con loro l'intero mondo. La scoperta del buddhismo è talmente dirompente da costituire una novità anche per gli orientali. Lo zen, per molti versi, si oppone e costituisce una critica nei confronti del taoismo e del confucianesimo. Takuan Soho (1573-1645) scrisse nel Tokaiyawa parole molto dure in proposito: 


"Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta. Infatti lo considera unicamente un non-qualcosa e non capisce. Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. Io chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo. Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito." 


Takuan ripresenta la concezione dello zen che interpreta il nulla come una condizione psicologica capace di operare positivamente. Ed è infatti questo nulla che libera l'uomo da ogni preconcetto e atteggiamento.

Secondo Suzuki Daisetsu, il nulla giunge continuamente a portata della nostra mano, è sempre con noi e in noi, condiziona la conoscenza, i nostri atti, la stessa vita. Ma quando tentiamo di coglierlo e presentarlo come una cosa, esso ci elude e svanisce.

Si capisce che il nulla dello zen non può essere né metafisico, né ontologico, ma nemmeno psicologico. Esso è tutte queste cose insieme e nessuna di esse presa singolarmente. Secondo Hisamatsu, questo nulla è onnipresente e si estende sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici, eppure non ha manifestazione conoscibile dai sensi. Il nulla dello zen esclude ogni possibilità di essere determinato, ed è perciò veramente puro e intatto poiché assolutamente intangibile.

Cos'è dunque questo nulla? Come si può descriverlo se è indicibile? Il buddhismo ricorre alla metafora dell'onda. Un'onda non cade dall'acqua dall'esterno, ma proviene dall'acqua senza separarsene. Scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima traccia di sé. Come onda si solleva dall'acqua e torna all'acqua. Come acqua esso è il movimento dell'acqua. Come onda l'acqua sorge e tramonta, e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. Questa è l'essenza del nulla zen. 



Bibliografia 


Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.

Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.

Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.

Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il melangolo, Genova, 1993.

Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996.

Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992.

Sekida, Katsuki, Zen Training. Methods and Philosophy. Weatherhill, New York, 1975.

Suzuki, Daisetsu,  The Zen Doctrine of No-Mind, Rider & Co., London, 1958.

Suzuki, Daisetsu, An Introduction to Zen Buddhism. Rider & Co., London, 1969.

Takuan, Soho, Lo zen e l'arte della spada, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001. 




mercoledì 24 agosto 2011

Ryozen jodo

Anche se ci sono ancora molte persone che fanno confusione circa i termini buddhisti, e i loro autentici significati, una precisa conoscenza e uno studio approfondito possono porre rimedio agli errori e alle cattive interpretazioni. In molti, infatti, mi hanno chiesto quale sia la traduzione corretta del termine buddhista Ryozen jodo. Il termine Ryozen jodo significa letteralmente "terra pura della montagna dello spirito". La traduzione corretta è questa, ed è facilmente comprensibile dalla lettura dei kanji (caratteri cinesi) che compongono le parole. Jodo è composto da due kanji: terra (tsuchi, do) e puro (kiyoi, jo). Ryozen è composto da altri due kanji: spirito (rei, ryo) e montagna (yama, zen). Quindi non possono esserci equivoci sulla corretta traduzione di Ryozen jodo.
Il termine è stato più volte usato da Nichiren, riprendendo la tradizione buddhista, per indicare il Gridhrakuta, in giapponese Ryojusen (Montagna dell'aquila, o dell'avvoltoio), località presso la città di Rajagriha, dove Buddha espose la dottrina del Sutra del Loto. I giapponesi usano anche la parola Jubusen, letteralmente Montagna del picco dell'aquila, per indicare lo stesso luogo. Nella concezione escatologica di Nichiren, il luogo assunse una valenza simbolica e metafisica, una specie di paradiso ultraterreno. Si può dire che abbia questa valenza perché il Ryozen jodo è considerato un luogo eterno fuori dal tempo e dallo spazio. Durante la sua esistenza, Nichiren aveva affermato la sicura salvezza attraverso la sua pratica religiosa, ma negli ultimi anni di vita incominciò a esprimere la speranza nella rinascita nel Ryozen jodo (La terra pura della montagna dello spirito). Ciò era in netta contraddizione con l'insegnamento fino ad allora predicato che aveva assicurato la buddhità durante la vita terrena. Infatti Nichiren negava l'esistenza di paradiso e inferno, ma quando iniziò ad ammalarsi e sentì la morte vicina incominciò a sostenere, riprendendo la tradizione della scuola Tendai, che si poteva rinascere nel Ryozen jodo, un luogo eterno meraviglioso.
Fornisco pubblicamente questa spiegazione perché sia diffusa e appresa anche da chi non conosce la lingua giapponese e ignora i significati delle parole e della terminologia buddhista.
Ovviamente questa non è una mia personale interpretazione, ma è una lettura corretta confermata dai maggiori studiosi dell'argomento. Si legga, per esempio, Massimo Raveri, Nichiren, in Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, pp. 519-521. Inoltre la rinascita nel Ryozen jodo viene menzionata in molti Gosho facilmente reperibili come la Risposta a Matsuno, in cui Nichiren incoraggia il suo seguace che si preoccupava della vita futura dopo la morte, parlando dei benefici che avrebbe ottenuto al momento della morte.
Cristiano Martorella

Bibliografia consultata:

Komatsu, Hosho, Nichiren Shonin zenshu, Shunjusha, Tokyo, 1998.
Yampolsky, Philip B., Selected Writing of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.
Renondeau, Gaston, La doctrine de Nichiren, Presses Universitaires de France, Paris, 1953.
Raveri, Massimo, Nichiren, in Dizionario delle religioni, a cura di Giovanni Filoramo, Einaudi, Torino, 1993, pp.519-521.
Filoramo, Giovanni, Buddhismo, Laterza, Roma-Bari, 2001.

domenica 10 ottobre 2010

Il terrorismo buddhista

Nissho Inoue. L'apice del terrorismo buddhista
di Cristiano Martorella

23 agosto 2010. Nissho Inoue (1886-1967) fu un predicatore e seguace del buddhismo di Nichiren, ma anche un ideologo e attivista politico dell'estremismo nazionalista più esaltato e intransigente, e soprattutto fu un organizzatore di attentati terroristici. La sua fede buddhista influenzò in modo inusitato la sua concezione sociale determinando il fanatismo esasperato che fondeva credenze religiose e politica. Nissho Inoue (1) ebbe quindi un nefasto ascendente nella società giapponese degli anni '30, persuadendo molti alle scelte politiche che portarono alla svolta autoritaria a favore del regime militarista.
Nissho Inoue fu un fautore della concezione autoritaria e nazionalista della politica giapponese che si oppose alla nascente democrazia dell'era Taisho (1912-1926). Egli era un sostenitore del kokutai (stato nazionale) di cui forniva una sua visione integrando aspetti culturali disparati, in primo luogo la concezione nazionalista del buddhismo di Nichiren, e la convinzione che fosse l'unica religione corretta da imporre e diffondere nel mondo. Ciò fornì una solida giustificazione alle imprese di conquista compiute dall'imperialismo giapponese tramite le truppe di invasione dell'esercito.
Molti ufficiali dell'esercito imperiale (teikoku rikugun) erano infatti devoti seguaci del buddhismo di Nichiren. Fra questi militari il più famoso, che interpretò il buddhismo in chiave imperialista, fu Kanji Ishiwara (1889-1949). Anche Kanji Ishiwara si servì di metodi terroristici per sostenere la causa dei militari, come nel caso dell'attentato del 18 settembre 1931 che portò all'invasione della Manciuria. L'episodio è noto come Manshu jihen (incidente della Manciuria), e nei libri di storia occidentali viene citato come l'incidente di Mukden.
Questa concezione fanatica ed estremista del buddhismo ebbe risvolti drammatici. Gli avversari di Nissho Inoue furono individuati fra i politici democratici, in particolare fra i membri del governo e gli esponenti della borghesia liberale. I metodi usati per eliminare questi oppositori furono davvero drastici e devastanti. Nissho Inoue costituì un'organizzazione terroristica chiamata Ketsumeidan (Gruppo del giuramento col sangue), reclutando volontari per commettere attentati e omicidi politici. Il motto dei terroristi fu ichinin issatsu, con cui si indicava "un omicidio a testa". Il gruppo era composto da una quindicina di giovani delle classi sociali meno agiate. Le vittime eccellenti dei terroristi furono l'ex ministro delle Finanze e capo del Minseito (Partito Democratico), Junnosuke Inoue, ucciso il 9 febbraio 1932, e Takuma Dan, direttore generale della Mitsui, colpito il 5 marzo 1932. Junnosuke Inoue, banchiere e uomo politico, si attirò l'ostilità dell'esercito per la sua politica di rigore e il suo rifiuto di aumentare le spese militari. Ciò gli costò la vita.
L'avversione di Nissho Inoue nei confronti della borghesia costituisce un tratto saliente dei movimenti di estrema destra giapponesi. In Giappone, infatti, una corrente nazionalista si ispirava al ruralismo, una concezione politica tradizionalista e conservatrice. Il ruralismo (nohonshugi) poneva al centro della società la comunità agricola, con il suo spirito di autogoverno, e la tendenza a mantenere l'armonia sociale, al contrario del capitalismo che esaltava la competizione e l'individualismo.
Davvero sorprendente nell'attività terroristica di Nissho Inoue è l'adattamento del buddhismo piegato agli scopi criminali. Ciò fu possibile perché egli fece ampio uso dell'estremismo fanatico di Nichiren (2) che nei suoi scritti, come per esempio Kaimokusho (Aprire gli occhi) e Hokekyo heiho no koto (La strategia del Sutra del Loto) esaltava la violenza e la lotta armata. Nichiren sosteneva la lotta armata, e le sue stesse parole sono la più emblematica testimonianza di ciò. Egli scrisse che "l'essenza della strategia militare (heiho) e dell'arte della spada derivano dalla legge mistica (myoho)". Così Nichiren, nel gosho intitolato La strategia del Sutra del Loto, affermava il valore delle virtù militari e della lotta armata. Una inammissibile assurdità ed eresia per i buddhisti pacifisti.

Note

1. Prima che diventasse un attivista, Nissho Inoue era conosciuto col nome di Akira Inoue, ed era nato a Kawaba nella prefettura di Gunma nel 1886. Nissho era il nome buddhista acquisito dopo la vocazione. Questo nome è composto da due kanji, ni e sho. Il primo significa sole (così come nel nome di Nichiren, ovvero loto del sole). Il secondo è lo stesso del verbo mesu (invitare, chiamare). Dunque Nissho significa all'incirca "chiamato dal sole".
2. Sulla figura storica di Nichiren gli studiosi hanno scritto abbastanza, tanto da smentire le irrealistiche versioni condite di miracoli e prodigi narrate dai suoi seguaci. Si leggano autori come George Bailey Sansom, Leonardo Vittorio Arena, Giuseppe Jiso Forzani, Massimo Raveri, Philip Yampolsky, Giovanni Filoramo.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Filoramo, Giovanni (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
Henshall, Kenneth, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Komatsu, Hosho, Nichiren Shonin zenshu, Shunjusha, Tokyo, 1998.
Moore, George Foot, Storia delle religioni, Laterza, Bari, 1963.
Pinguet, Maurice, La morte volontaria in Giappone, Luni Editrice, Firenze, 2006.
Sansom, George Bailey, Japan. A Short Cultural History, Stanford University Press, Stanford, 1978.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, 3 voll., Stanford University Press, Stanford, 1958-1963.
Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.

sabato 2 ottobre 2010

Takashi Murakami e i manga

Lettera pubblicata dal quotidiano "La Stampa".
Cfr. Cristiano Martorella, Chi critica i manga non capisce d'arte, in "La Stampa", mercoledì 29 settembre 2010.

Chi critica i manga non capisce d'arte
Due opere dell'artista Takashi Murakami sono state vendute da Sotheby's a un prezzo superiore alla quotazione iniziale: "Koumokkun" a 474 mila euro, e "Eye love superflat" a 289 mila euro. Takashi Murakami è divenuto famoso per le sue opere che si ispirano all'arte hentai e alla cultura pop giapponese contemporanea, in particolare ai manga. Ciò dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che le critiche frettolose a questo genere di opere provengono soltanto dall'ignoranza gretta e dall'incomprensione di un genere che si sta affermando a livello mondiale. Infatti nel nostro Paese non sono mai mancate le voci critiche, quasi sempre eccessive, nei confronti dei manga giapponesi accusati delle peggiori perversioni.
Cristiano Martorella

mercoledì 8 settembre 2010

La creazione e il buddhismo

Intervento sul tema della creazione e il buddhismo pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX".
Cfr. Cristiano Martorella, La creazione e l'ignoranza, in "Il Secolo XIX", mercoledì 8 settembre 2010, p.41.

La creazione e l'ignoranza
Le lettere pubblicate da "Il Secolo XIX" circa la questione della creazione dell'universo tendono a essere troppo sbrigative e sbilanciate a favore di un'unica visione ossia la credenza della necessità di una divinità creatrice. Oltre a non spiegare niente circa la natura di questa entità creatrice, si cade nel paradosso e nella giustificazione dell'ignoranza, ossia si afferma che conoscere Dio non è possibile. Inoltre queste teorie peccano di etnocentrismo affermando che tutti i popoli credono in una divinità creatrice. Ciò è assolutamente falso. Milioni di buddhisti credono che l'universo non sia stato mai creato e mai finirà, ma sia qualcosa eternamente in trasformazione. Buddha stesso viene spesso identificato con l'universo, e nessun buddhista sostiene che c'è una divinità che lo crea. Così Hakuseki Arai, quando incontrò il missionario Giovanni Battista Sidotti, confutò la credenza in Dio. Egli osservò che se Dio ha creato l'universo, allora chi ha creato Dio? E se Dio è eterno e non è stato creato, perché non si può dire altrettanto dell'universo? La confutazione è ancora oggi validissima.
Cristiano Martorella