domenica 30 maggio 2010

I commercianti giapponesi

Chonin. Commercio e cultura
L’importanza dei commercianti nella cultura ed economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 luglio 2003. Il ruolo svolto dai commercianti (chonin) nel Giappone premoderno e moderno ha avuto la giusta attenzione da parte della saggistica. Purtroppo l’immagine comune e superficiale che si ha del Giappone è fossilizzata sulla rappresentazione del guerriero samurai, offuscando gli altri protagonisti della storia. Si può però rimediare facilmente a tale falsa impressione ricordando quanto è stato evidenziato dagli studiosi più avveduti.
Sono due i punti da rimarcare per una corretta conoscenza della storia economica giapponese:

1) La dinamica e mobilità sociale fra le classi;
2) Il processo di sviluppo capitalistico avvenuto dal basso in modo spontaneo.

La mobilità sociale del Giappone premoderno è stata così elevata quanto dimenticata. Eppure fu questo fenomeno che causò le trasformazioni della struttura economica e sociale del paese. Questa trasformazione avvenne in modo incontrollabile da parte del potere politico shogunale che non seppe adeguarsi e si ritrovò ad assistere all’ascesa della borghesia mercantile (chonin). Gli shogun dell’era Tokugawa ebbero un atteggiamento ambivalente nei confronti della borghesia. A livello ideologico la condannarono sostenendo la validità dei princìpi neoconfuciani e rilanciando le scuole di pensiero conservatrici (Sushigaku, Shoheiko, etc.). Anche ciò produsse però l’effetto contrario perché il neoconfucianesimo giapponese favorì la razionalizzazione negli studi che furono poi alla base della rangaku (scienza occidentale). A livello pratico i Tokugawa gettarono le fondamenta dello sviluppo urbano tanto da creare a Edo, poi Tokyo, il modello metropolitano. Bisogna comunque sottolineare che senza l’unificazione politica del Giappone operata dai Tokugawa, non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico e il superamento del modello rurale. Lo storico Yamamura Kozo (1) ha chiarito con dovizia e precisione come lo sviluppo economico del Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) fu un processo spontaneo nato dal basso per merito della borghesia prosperata nel periodo Edo (1603-1867). Risulta così falsa la tesi che sostiene la modernizzazione dell’economia giapponese condotta dall’alto dalle autorità governative, o peggio, indotta dalla penetrazione degli occidentali. Già Edwin Reischauer (2) aveva notato come il feudalesimo giapponese avesse caratteristiche molto simili a quello europeo, e sappiamo quanto questo genere di organizzazione sociale, che favoriva la formazione di centri urbani, fosse importante per creare le condizioni per l’avvio del capitalismo mercantile. Perciò lo sviluppo capitalistico giapponese fu assolutamente autoctono e non indotto dall’esterno. Sorprende che ancora oggi vi sia qualcuno che sostenga la tesi dell’introduzione dall’esterno del modello capitalistico negando di fatto che i giapponesi siano gli artefici della propria storia. Si tratta comunque di una tesi con forti influenze ideologiche che presuppone il primato del sistema occidentale nella sua unicità. Così non è, ed è bene ribadirlo.
Altra caratteristica importante della storia nipponica fu la forte mobilità sociale dal XVI secolo in poi, ovvero il passaggio a classi diverse dal proprio lignaggio e la commistione dei diversi strati sociali che provocava trasformazione, progresso ed evoluzione culturale ed economica. Risulta infatti chiaro e ben evidente che l’immobilità sociale sia antitetica a un sistema capitalistico basato sul libero mercato. Il grande rimescolamento sociale del XVI secolo fece coniare agli storici giapponesi l’espressione ge koku jo (il basso vince l’alto), un’espressione molto efficace ricordata anche dall’orientalista Thomas Cleary. La mescolanza fra le classi avvenne secondo due direzioni. Prima della separazione di contadini e guerrieri operata da Toyotomi Hideyoshi nel 1588 e chiamata heino bunri, c’era una commistione fra samurai di campagna (goshi) e contadini armati. Un fenomeno ricordato da Kurosawa Akira nel film I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) col personaggio di Kikuchiyo interpretato da Mifune Toshiro. Aspetto ironico della faccenda è che la divisione fu operata da Toyotomi Hideyoshi, uomo di umili origini contadine che era asceso al potere per meriti militari acquisendo il titolo di daijo daijin (ministro), e la nobiltà tramite il sistema dell’adozione (yoshi). L’altro movimento molto più ampio fu quello che avvenne dopo l’organizzazione del XVII secolo con la separazione in quattro classi (shinokosho). Gli uomini di città, ossia i mercanti e la borghesia, furono chiamati chonin. Il potere shogunale cercò di mantenere forzatamente la separazione fra le classi così da garantire il governo della popolazione che non poteva formare un fronte compatto e ribellarsi. Il declino dei Tokugawa fu provocato dall’impossibilità di mantenere questa immobilità sociale. Infatti i samurai si mischiarono ai chonin godendo dei vantaggi della vita urbana e molti di essi cambiarono classe divenendo chonin. I samurai che non cambiarono classe ebbero comunque forti contatti con i borghesi, e come i ronin, samurai senza padrone, vivevano in mezzo a loro. I lavori svolti dai ronin per sopravvivere, come l’insegnamento delle lettere e delle arti, provocarono una diffusione molto vasta della cultura non più riservata a una sola classe. Gli stessi chonin si recavano a teatro per assistere alle storie che vedevano come protagonisti i samurai. Lo spostamento dell’impiego dell’arte dall’aristocrazia alla borghesia è un fenomeno avvenuto anche in Europa nel XIX secolo dopo le trasformazioni sociali avviate dalla rivoluzione francese. In Giappone ciò accadde molto prima, nel XVII secolo del periodo Edo. A ciò si aggiungeva, ed è l’aspetto più importante, la formazione di un tessuto urbano altamente produttivo e con caratteristiche borghesi nettamente marcate. Ciò significa che l’economia dell’epoca si fondava sulla produzione di beni con elevato valore aggiunto, un tratto caratteristico delle società capitalistiche. Tuttavia restava ancora arretrato il sistema monetario, in parte basato sul riso e su diseguali monete d’oro, argento, rame e ferro con cambi vari e disomogenei. Perciò dobbiamo attendere l’era Meiji (1868-1912) per vedere uno sviluppo completo del capitalismo. Comunque la coincidenza nel tessuto urbano del sistema produttivo (economia) e del mondo dell’arte (cultura) nel Giappone del periodo Edo (1603-1867) è un aspetto estremamente significativo. Soprattutto indica la forza del rapporto cultura/economia nella storia giapponese. Passiamo a ricordare quanto la cultura della borghesia (chonin bunka) fosse dominante nonostante l’avversione dell’ideologia delle autorità governative. La cultura Genroku (1688-1704) fu rappresentata dalla letteratura del Kamigata e dai nomi di Ihara Saikaku, Matsuo Basho e Chikamatsu Monzaemon. Nato da una famiglia di commercianti di Osaka, Ihara Saikaku divenne celebre per le sue opere di eccezionale realismo. Nella serie di racconti intitolati Nippon eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone, 1688), egli narra le vicende di persone arricchite o impoverite. Ihara Saikaku ammette in modo spudorato e sincero l’attitudine dei chonin con la seguente frase: Yo ni zeni hodo omoshiroki mono wa nashi (In questo mondo non c’è niente di più interessante dei soldi). L’aspetto che stiamo sottolineando è la coincidenza di cultura ed economia che traevano la propria forza dallo stesso tessuto sociale. Si pensi a Ejima Kiseki (1667-1736), un mercante che divenne scrittore, oppure un intellettuale poliedrico come Hiraga Gennai (1728-1779) che fu ronin, ceramista, botanico, inventore e scrittore. Costoro, con le dovute differenze di estrazione sociale, vivevano però nello stesso mondo e condividevano la stessa vita urbana dell’epoca. La drammaturgia e la narrativa erano finanziati dai ricchi chonin. Come nel caso di Ejima Kiseki, gli editori (per questo scrittore fu Hachimonjiya) erano enormi librerie che sovvenzionavano gli autori. Il sistema produttivo prosperava grazie alla creatività dei cittadini borghesi e l’espansione capitalistica era avviata da tale spirale virtuosa in cui chi produceva era anche consumatore (ciò è completamente diverso dal sistema rurale dove l’aristocrazia era parassitaria). La nascita dell’economia giapponese avvenne dal basso e in modo spontaneo. Così fu per la cultura, tanto che si può dire che la cultura pop giapponese più diffusa fu quella dell’epoca Edo, se vogliamo usare una terminologia attuale e di moda. È bene ricordare che questa idea della nascita della cultura pop nell’epoca Edo è stata proposta dall’architetto Ueda Atsushi. L’autorevole storico Yamamura Kozo, spiega in modo molto chiaro il concetto della nascita dal basso dell’economia e cultura giapponese.

"È fuori dubbio che il Giappone sia un paese moderno e che faccia parte dell’Asia: la conclusione evidente è che esso dovette modernizzarsi secondo proprie modalità. Un kimono in fibra sintetica richiama alla mente tanto l’abbigliamento di un samurai quanto l’architettura di un impianto chimico gigantesco e molto complesso: non è per questo necessario chiamarlo un tailleur, né definire magia occidentale un processo chimico. Al pari di un kimono di rayon, l’economia giapponese è un prodotto dell’industrializzazione, ma la modernizzazione che l’ha accompagnata non ha occidentalizzato il paese sino al punto da cancellare completamente il retaggio peculiare della sua storia e della sua cultura. Se questo è il motivo principale del fascino che la storia economica del Giappone esercita su di noi, va aggiunto che la capacità di divenire moderno senza perdere il senso della propria eredità nazionale è in fin dei conti il segreto del successo industriale dell’arcipelago." (3)

Nonostante sia evidente a tutti, il pregiudizio che i giapponesi abbiano copiato dagli occidentali, sia le strutture sociali sia le tecniche, è difficile da estirpare. Ammettere che il modello occidentale di civiltà non è l’unico e il migliore è ancora troppo difficile o addirittura un tabù (4). Così si impedisce la comprensione della storia economica, ma vi si può porre rimedio.


Note

1. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino,1980.
2. Cfr. Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994, p.44.
3. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino, 1980, p.321.
4. In proposito ha ricevuto apprezzamento da parte degli economisti la denuncia di questo tabù da abbattere. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia, XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.

Bibliografia

AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.
AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.
Allen, George Cyril, Il Giappone dal feudalesimo alla grande industria, Giannini Editore, Napoli, 1973.
Beonio Brocchieri, Paolo, Religiosità e ideologia alle origini del Giappone moderno, Il Mulino, Bologna, 1993.
Dunn, Charles, La vita quotidiana nel Giappone del periodo Tokugawa, Fabbri Editori, Milano, 1998.
Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
Ihara, Saikaku, Storie di mercanti, UTET, Torino, 1983.
Ihara, Saikaku, Vita di un libertino, Guanda, Parma, 1988.
Landes, David, La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti, Milano, 2002.
Martorella, Cristiano, La società aperta e il caso Giappone, Relazione del corso di storia della filosofia contemporanea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1997.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Matsumoto, Ken’ichi, Nihon no kindai: kaikoku ishin, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1998.
Miyawaki, Mayumi, Otoko to onna no ie, Shinchosha, Tokyo, 1998.
Ono, Yoshiyasu, Keiki to keizai seisaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1998
Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.
Takeshita, Toshiaki, Lineamenti di storia della cultura giapponese, Clueb, Bologna, 1994.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.
Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.

La borghesia giapponese

Burujoa. La borghesia giapponese
Storiografia, ideologia e interpretazione
di Cristiano Martorella

24 luglio 2005. La parola giapponese burujoa è un gairaigo (termine d’origine straniera) derivata dal francese bourgeios e introdotto attraverso la saggistica socialista all’inizio del Novecento (1). Nella storiografia occidentale la borghesia giapponese è stata vittima di fraintendimenti e dissimulazioni che ancora oggi fanno sentire il loro peso. Addirittura la classe media (chusankaikyu) sembra sparita dai libri di storia per dare spazio a valorosi, quanto mai mitici, samurai. Per ripulire la narrazione degli eventi dalle mistificazioni che affliggono la storiografia, bisogna comprendere innanzitutto il pregiudizio ideologico che vizia ogni considerazione. L’idea di fondo è che il Giappone potesse imitare l’Occidente, pur senza possederne le strutture sociali, soltanto se ciò fosse stato imposto dai politici dall’alto. Insomma, questo è il teorema dello sviluppo dall’alto propugnato dalle classi politiche che ignora completamente la borghesia giapponese e la sua storia. Questo teorema risulta estremamente fuorviante quando applicato alla storia dell’economia del Giappone. Economia che non è nata dalla mente dei politici, come vorrebbero far credere alcuni manuali scolastici, ma è il risultato dell’opera di milioni di lavoratori, del loro ingegno e del loro spirito imprenditoriale. Al contrario, dal 1925 al 1945, la classe dirigente ha ritardato lo sviluppo dell’economia del Giappone concentrando le risorse sull’industria pesante e militare, cercando di ottenere le fonti di approvvigionamento attraverso le conquiste coloniali al posto del commercio, trascinando il paese in guerre impossibili da vincere. Dal 1993 al 2001 è stata la classe dirigente che ha preso provvedimenti tali da inasprire la crisi economica, aumentando il debito pubblico e peggiorando i debiti delle banche, oltre a rendersi protagonista di scandali per corruzione. Attribuire meriti a politici capaci di ogni ignominia richiede uno sforzo di immaginazione davvero disumano. Eppure la storiografia ufficiale abbonda di simili voli della fantasia. Il caso più famoso e significativo è rappresentato da Franco Mazzei, autorevole storico e docente dell’Università di Napoli. Nel XII volume de La storia (2) edito dal quotidiano "La Repubblica", egli ripresenta la consueta teoria dello sviluppo dall’alto attraverso il confucianesimo aristocratico, rigettando l’importanza del ruolo svolto dalla borghesia mercantile (chonin). Franco Mazzei nega il ruolo predominante della borghesia commerciale nello sviluppo capitalistico, insistendo sulla funzione dirigistica del governo Meiji, considerato il vero ispiratore della rivoluzione borghese e principale artefice del decollo dell’economia del Giappone nel XIX secolo (3).
In effetti manca da parte di Franco Mazzei la discussione delle differenti teorie, propendendo a favore della tesi dello sviluppo dall’alto soltanto in base a una preferenza personale. La quantità degli studi contro la teoria dello sviluppo giapponese diretto dall’alto è però enorme, e mina la credibilità di molti storici tuttora ancorati a vetuste narrazioni e interpretazioni fittizie. Sicuramente il più fiero oppositore alla concezione della rivoluzione borghese guidata dal governo è stato Claudio Zanier, autore di un volume fondamentale (4) che mostra e smonta gli errori dei colleghi. Eppure il suo lavoro, come tanti altri, è stato occultato e dimenticato perché troppo scomodo.
Claudio Zanier ricorda le importanti riforme politiche ed economiche avvenute durante il periodo Edo (1603-1867) che furono una efficiente opera di razionalizzazione (5). I governi Tokugawa, molto prima della riforma Meiji, avviarono un processo che permise la formazione di una struttura sociale borghese e del capitalismo mercantilista. Le riforme fondamentali dell’epoca Edo furono la formazione di un catasto nazionale, la riforma fiscale e il disarmo dei contadini. Inoltre si attuarono le condizioni per far prosperare l’economia di mercato attraverso due secoli di pace continua e il commercio. Questo processo si sviluppò spontaneamente perché non era affatto intenzione dei governanti Tokugawa di favorire la borghesia e gettare le basi per la nascita del capitalismo, forma economica completamente ignota ed estranea alla mentalità degli shogun. Eppure fu proprio in queste condizioni che la borghesia giapponese trovò l’ambiente adatto allo sviluppo. Ciò che si verificò, per molti versi, era in contrasto con le intenzioni dei Tokugawa. Essi si adoperarono per la netta divisione in quattro classi (shimin) costituite da guerrieri, contadini, artigiani e commercianti (shi, no, ko, sho). Tuttavia l’epoca Edo conobbe una notevole mobilità sociale, e la crescente importanza e influenza dei chonin (commercianti) convinse molti samurai a cambiare classe, scegliendo la vita del mondo degli affari. Caso emblematico fu Mitsui Takatoshi (1622-1694), fondatore dei negozi Mitsui, famoso per essere stato tra i primi a rinunciare al rango di samurai per diventare commerciante. Sicuramente rappresentò l’evento più importante, ma non era un caso isolato, al contrario era abbastanza frequente.
Questa mobilità sociale insieme al dinamismo dei commercianti che costituirono un’autentica cultura (Genroku bunka) alimentata da attori di teatro, musicisti, poeti e scrittori, fornisce la negazione assoluta dell’idea dello sviluppo dall’alto. Soprattutto è l’affermazione del valore e del ruolo della borghesia mercantile giapponese, divenuta poi borghesia imprenditoriale nel XIX secolo.
L’economia del Giappone dell’epoca Edo (1603-1867) attuò l’accumulazione di capitali e risorse necessari al decollo (take off) dello sviluppo nei secoli successivi. Ovviamente furono i commercianti ad essere protagonisti in questa fase. Piuttosto fu nell’era Meiji (1868-1912) che si evidenziarono le debolezze dell’economia del Giappone causate da una cronica mancanza di capitali. Questo problema del capitalismo senza capitale, era provocato anche dall’indebolimento della borghesia a favore dell’esercito, autentico antagonista e avversario del capitalismo, sostenitore e difensore della concezione rurale della società. La produzione fu concentrata a fini militari, e il commercio limitato escludendo i manufatti inutilizzabili per il conflitto. L’indebolimento della borghesia favorì l’accentramento di potere e la formazione di cricche economiche che impedirono il libero mercato e la concorrenza. Le guerre nascosero la distorsione dell’economia del Giappone, favorendo nello stesso tempo i discorsi di chi sosteneva l’unità nazionale per il conseguimento degli obiettivi militari. Da questa anomalia il Giappone uscì grazie a una radicale sconfitta che eliminò l’esercito e le sue pretese di controllo sulla società. Nelle condizioni di equilibrio e libero commercio del dopoguerra, la borghesia giapponese ebbe la possibilità di incentivare una sana attività imprenditoriale, contribuendo alla straordinaria crescita del Giappone, economia ormai liberata dai ceppi dell’isolamento e delle costrizioni militariste.
Questa lettura fa emergere quanto sia pericoloso sostenere l’idea di uno sviluppo guidato dall’alto dalla classe dirigente politica che è stata, in realtà, l’artefice delle distorsioni e disgrazie del Giappone. Mentre l’artefice della crescita economica, la classe media (chusankaikyu) o borghesia media, viene ignorata dalla storiografia.
Un’interpretazione altrettanto fittizia è quella di Vittorio Volpi (6) che sostiene l’esistenza di una crisi di identità del Giappone. Però a quale identità si riferisce Vittorio Volpi? Al Giappone dei samurai e delle geisha? Questa interpretazione del Giappone tradizionale non tiene presente dell’esistenza di una classe borghese fin dall’epoca Edo, ignorando completamente la storia. Credere che la cultura giapponese sia soltanto una cultura aristocratica è un errore madornale. Incredibile è che ancora in tanti continuino a sostenerlo.

Note

1. La traduzione del Manifesto Comunista (Kyosanto sengen) apparve nel 1904, ad opera di Sakai Toshihiko e Kotoku Shusui. La parola francese bourgeois deriva a sua volta da bourg (borgo), così come la parola giapponese chonin (commerciante) da cho (quartiere).
2. Cfr. Franco Mazzei. Le riforme Meiji in Giappone, in La storia, vol.XII, par. XII, La Biblioteca di Repubblica, UTET, Torino e De Agostini Editore, Novara, 2004, pp.509-541.
3. Ibidem, pp.540-541.
4. Cfr. Claudio Zanier, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino, 1975.
5. Ibidem, p.55.
6. Cfr. Vittorio Volpi, Giappone. L’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.

Bibliografia

Ike, Nobutaka, The Development of Capitalism in Japan, in "Pacific Affairs", vol.XXII, 1949.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Miyamoto, Mataji, The Merchants of Osaka, in "Osaka Economic Papers", n.1, vol. VII, 1958.
Molteni, Corrado, Debito pubblico e politiche economiche, in Il Giappone che cambia, Atti del XXVII convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2004.
Smith, Thomas, The Agrarian Origins of Modern Japan, Stanford University Press, Stanford, 1959.
Smith, Thomas, Political Change and Industrial Development in Japan, Stanford University Press, Stanford, 1955.
Takahashi, Masao, Modern Japanese Economy since the Meiji Restoration, KBS, Tokyo, 1967.
Takekoshi, Yosaburo, The Economic Aspects of the History of the Civilization of Japan, Allen and Unwin, London, 1930.
Volpi, Vittorio, Giappone. L’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.
Zanier, Claudio, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone, Einaudi, Torino, 1975.

Eclissi del capitalismo

Botsuraku. L’eclissi del capitalismo
di Cristiano Martorella

1 dicembre 2002. Botsuraku in giapponese significa caduta, rovina, declino, eclissi. Però l’eclissi di cui parliamo qui non è l’eclissi del sole, ma l’eclissi metaforica di una stella altrettanto importante per lo sviluppo umano: il capitalismo (shihonshugi). L’espressione che abbiamo coniato, "eclissi del capitalismo", può apparire esagerata eppure si considererà alla fine quanto sia opportuna.
La crisi economica che attanaglia il Giappone, la seconda potenza economica, da un decennio a partire dal 1993, non è stata mai considerata con la dovuta serietà. I detrattori del modello nipponico hanno sempre esultato indicando questa crisi come la conferma delle loro teorie sull’arretratezza strutturale della società giapponese. Mentre questi analisti si compiacevano delle sventure altrui, sono stati inaspettatamente colpiti da sciagura, morte e terrore. Il simbolo dell’orgoglio economico americano veniva sbriciolato dall’atto orribile del fondamentalismo islamico. I soliti opinionisti dediti al riciclaggio delle idee altrui hanno rispolverato le tesi di Samuel Huntington sullo scontro delle civiltà (1). E così ci siamo ritrovati in un gioco delle parti che divideva il mondo in buoni e cattivi. Ciò ha surrettiziamente nascosto le cause degli eventi e trasformato i discorsi in esercizi di retorica e ideologia (2). I movimenti no global (o secondo altra definizione new global) hanno sposato la bandiera degli oppressi e puntato il dito contro le disuguaglianze cercando di sostenere la necessità di un cambiamento dell’ordine mondiale. La produzione intellettuale di questi movimenti è sorprendente per quantità (3), e sicuramente più convincente dei sostenitori del liberismo economico (ciò è facilitato dal contesto sociale estremamente degradato). Eppure la qualità di questi lavori non è così elevata come si crede. Una mente acuta come quella di Alessandro Baricco si è subito accorta delle debolezze intellettuali dei no global, nonostante non si presenti come un oppositore del movimento (4). La teoria dei no global si fonda sul riconoscimento della sperequazione. I ricchi diventano sempre più ricchi a scapito dei poveri. Perciò propongono un’economia etica che tenga in considerazione i princìpi di equità sociale. Purtroppo i no global non hanno nessuna ricetta per il capitalismo e le loro proposte mancano di una solida comprensione della realtà economica. Molte delle analisi dei no global sono pregiudiziali e non considerano importanti aspetti dell’economia. Essi pensano di eliminare le storture del capitalismo che considerano come la causa del disagio sociale. Ciò che indicano come il colpevole, ossia il capitalismo, è in verità la vittima della storia economica. Il capitalismo non potrebbe essere il nemico perché il capitalismo è un soggetto attualmente in agonia. Quello che stiamo vivendo è il periodo più duro per le aziende che devono sostenere la concorrenza internazionale, la crisi demografica e la diminuzione dei consumi, l’innovazione tecnologica, la scarsità di finanziamenti, e tutto ciò in un contesto di continua instabilità interna ed esterna. La causa autentica di questi eventi è da imputare all’eclissi del capitalismo, alla sua incapacità di creare benessere. Ma per capire l’eclissi del capitalismo e le sue conseguenze bisogna accettare innanzitutto quest’idea. L’eclissi del capitalismo esiste ed è reale. Bisogna abbandonare l’idea che il male sia il capitalismo e che esso sia forte e in salute. Al contrario, le distorsioni del capitalismo sono l’indizio della sua agonia.
Ritorniamo dunque alla crisi economica giapponese e vediamo che cosa rappresenti per noi. L’aspetto più interessante che riguarda l’economia giapponese è quello esoterico. Infatti difficilmente troverete degli economisti che siano d’accordo e presentino uno stesso quadro dello sviluppo economico del Giappone, specialmente se recente (5). In Giappone hanno proliferato numerosissime sette buddhiste, altrettanto vale per le scuole economiche. E il paragone con la religione non finisce qui. Alcuni presupposti degli economisti si basano su autentici atti di fede, e il loro linguaggio esoterico è compreso soltanto dagli adepti. L’affermazione, ad esempio, che la ripresa economica è dietro l’angolo è soltanto un atto di fede che presume la visione salvifica del libero mercato. La scienza del concreto, l’economia (letteralmente amministrazione della casa, dal greco oikonomía), è divenuta l’ultima e più seguita setta religiosa. Però il Giappone non ci interessa come caso strampalato, piuttosto come la punta di diamante del capitalismo internazionale. Il Giappone non va deriso o commiserato, poiché il Giappone è il nostro futuro. La crisi che si è presentata nel 1993 non era un fenomeno singolare, piuttosto l’inizio di un evento mondiale: l’eclissi del capitalismo.
Negli anni Ottanta il Giappone aveva portato a maturazione il capitalismo fino a raggiungere livelli ineguagliati di ricchezza. Lo sviluppo industriale nipponico aveva oscurato la potenza statunitense. Al massimo della sua fortuna il Giappone conosceva negli anni Novanta una dura recessione. Perché? Molte motivazioni sono state avanzate, la prima e più accreditata è la bolla speculativa. Oggi, comunque, possiamo meglio capire questi fenomeni e afferrare il senso storico degli eventi. Lo sviluppo economico del Giappone era fondato su basi solide: un apparato industriale avanzato, tecnologicamente concorrenziale (se non addirittura senza concorrenti) e una forza lavoro ordinata, organizzata e disciplinata. Che cos’è che non funziona? La risposta può essere fornita soltanto se sappiamo che cos’è il capitalismo (6).
Il capitalismo è quel sistema che ha come obiettivo la valorizzazione del capitale tramite un’attività produttiva o commerciale che crei profitto. In questo sistema ha un ruolo fondamentale e cruciale la moneta che permette la rotazione del capitale, ovvero il passaggio dall’investimento di denaro in un bene che produca altro denaro (secondo lo schema D-M-D’). Pertanto il processo di produzione deve essere organizzato in modo da rendere massimo il profitto e minimo il costo. Se non si realizzasse un profitto l’investimento di capitale non avrebbe senso. Ma come ha origine questo aumento di valore del capitale investito? Esso avviene tramite il lavoro, come intuito da David Ricardo. Secondo Ricardo il lavoro crea un valore aggiunto. Dunque la merce incorpora il lavoro e il valore del lavoro. David Ricardo addirittura pone il lavoro come punto di partenza: la misura del valore non può che essere il lavoro contenuto nelle merci. La moneta d’altronde nasce dalla divisione sociale del lavoro (specializzazione delle attività produttive) e con la nascita dello scambio (libero mercato). La teoria della moneta di David Ricardo ci permette di capire che cosa si nasconda dietro il velo della moneta. La moneta non è altro che una convenzione sostenuta dal sistema sociale del lavoro. Ciò ci permette di sbarazzarci delle suggestioni che suggeriscono una visione della finanza come astrazione. La superficie convenzionale della moneta non deve far dimenticare che il suo valore è fornito dal lavoro. L’altro aspetto essenziale è costituito dal mercato che rende possibile il sistema economico e finanziario. Però il mercato è una funzione dell’organizzazione sociale ed è garantito soltanto dall’esistenza di una complessa e articolata società. L’antropologia ha sviluppato molte intuizioni degli economisti per considerare le differenti relazioni umane: reciprocità, redistribuzione e scambio. Marshall Sahlins, partendo dalla teoria di Karl Polanyi, sostenne tre tipi di reciprocità (generalizzata, bilanciata e negativa). La reciprocità generalizzata nasce da un rapporto istituzionale (per esempio i doveri familiari, il dono, l’ospitalità). La reciprocità bilanciata riguarda scambi simultanei di beni della stessa categoria. La reciprocità negativa è costituita da uno scambio finalizzato ad ottenere un utile (per esempio un baratto vantaggioso). La reciprocità avviene fra istituzioni simmetriche. La redistribuzione è invece un movimento di beni in condizione di dissimmetria istituzionale. Il flusso avviene verso oppure da un centro. La redistribuzione è per esempio il sistema di tassazione (con un ministero delle finanze posto al centro). Lo scambio è invece un movimento di beni all’interno di un mercato autoregolato fra soggetti diversi. Se nella reciprocità c’è una simmetria, e nella redistribuzione una centralità, invece nello scambio i soggetti sono liberi. Lo scambio di mercato tende a massimizzare i vantaggi secondo un’ipotesi avanzata da Adam Smith (teoria della propensione allo scambio utilitario) e ripresa con forza dalla scuola dei marginalisti. Karl Polanyi descrisse e sottopose a critica l’area istituzionale che comprende gli scambi collegati al commercio, il mercato e la moneta, ritenuto un sistema composto da una terna di parti connesse e inscindibili. Essa viene definita "triade catallattica" riprendendo una definizione dell’economista Richard Wathely. Ciò ci deve far considerare l’importanza delle istituzioni che sottendono il mercato, il quale non è affatto qualcosa di spontaneo. Il mercato, infatti, solo a partire dal XIX secolo e grazie alla rivoluzione industriale viene scorporato (disembedded) dalla società e diviene autoregolato. Questa è l’epoca della nascita del capitalismo (in precedenza si poteva osservare un capitalismo mercantilista, una forma primordiale del capitalismo). Negli anni Ottanta del XX secolo si afferma la dottrina iper-liberista che pone dei limiti al controllo degli stati che perdono definitivamente ogni dominio della vita sociale ormai sottoposta alle esigenze dell’economia (7). Anche l’economia giapponese, sull’onda della competizione con gli Stati Uniti, si converte al liberismo. L’idea di una società giapponese unita e compatta è in realtà un mito che non tiene presente l’evoluzione storica del paese. Si tratta di una visione sostenuta dall’astrazione di un presunto spirito neoconfuciano. Eppure le altre influenze culturali (shintoismo e buddhismo in primo luogo) ebbero una prevalenza ben maggiore del confucianesimo spesso osteggiato da pensatori come Motoori Norinaga (sua è l’espressione spregiativa karagokoro, ossia mentalità cinese). La tendenza giapponese degli anni Novanta a sposare le tesi dell’economia liberista è segnalata, a volte denunciata, dai due fronti opposti della sinistra socialdemocratica e della destra liberaldemocratica. In particolare il premier Koizumi Jun’ichiro si è distinto per la sua convinzione nella necessità di varare riforme liberiste. Però sono soprattutto gli economisti giapponesi a indicare questa svolta del Giappone. Ohmae Kenichi [Omae Ken’ichi], convinto assertore del liberismo ha spronato il suo paese ad adottare cambiamenti a favore del libero mercato. Autore di numerosi testi sulla ristrutturazione dell’economia giapponese è Noguchi Yukio, attento osservatore delle prospettive delle nuove tecnologie. Opposta la posizione di Ito Makoto che denuncia i mali comportati dall’adesione del Giappone alla politica economica liberista (8). Constata l’autentica condizione dell’economia giapponese (si considerino anche le privatizzazioni e l’eliminazione delle barriere protezionistiche) si può riconoscere che la crisi giapponese non è imputabile ai difetti del modello giapponese, piuttosto è l’eclissi del capitalismo che è stato portato in Giappone nella fase più avanzata. In conclusione il Giappone è l’orizzonte dell’eclissi del capitalismo, un fenomeno che coinvolgerà l’intero mondo.
Che cos’è che rende possibile l’eclissi del capitalismo? La questione merita un approccio tecnico che è possibile grazie all’imponente quantità di studi di economisti, storici e sociologi. Perché tale risposta non è stata fornita finora? La divisione, spesso politica, delle differenti scuole economiche ha impedito di mettere insieme i pezzi di questo puzzle.
Cerchiamo di presentare un quadro sintetico, ma completo, delle ragioni dell’eclissi del capitalismo. Due sono le motivazioni fondamentali della svolta storica dell’economia mondiale:

- l’esaurimento dei fattori antagonisti al calo del saggio di profitto;
- il prezzo non più collegato al valore.

Il calo del saggio di profitto è una scoperta di Karl Marx rifiutata dalle altre scuole. Qui la presentiamo in una formulazione che prescinde dalla teoria del plusvalore e utilizza la terminologia dell’economia classica.

s = Gt / (Cc + Cv)

s saggio di profitto
Gt profitto totale
Cc capitale costante
Cv capitale variabile

Il saggio di profitto s esprime il rendimento dell’investimento ed è definito nell’economia classica dal rapporto tra il profitto totale e il costo totale (Gt / Ct). Il capitale costante Cc è la spesa in investimenti costanti come macchinari, materiali, energia, etc. Il capitale variabile Cv è il salario per i lavoratori. La scomposizione del costo totale Ct in capitale costante Cc e capitale variabile Cv permette di desumere che il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla composizione organica del capitale (q = Cc / Cv). Eseguiamo i passaggi:

s = Gt / (Cc + Cv)
s = (Gt / Cv) / ((Cc + Cv) / Cv)
s = (Gt / Cv) / (1 + q)

Dunque il saggio di profitto diminuisce all’aumentare della composizione organica del capitale. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è la condanna per esaurimento del capitalismo. Infatti l’espansione e l’aumento del capitale comporta la diminuzione del rendimento di un investimento. Poiché il capitalismo ricerca un investimento che crei profitto, questa tendenza si rivela fatale. L’investimento non è possibile se non è vantaggioso. Il capitalismo crea le condizioni perché ciò, paradossalmente, non avvenga. Gli investimenti sono sempre meno redditizi. Ovviamente il capitalismo non è entrato in crisi grazie ai fattori antagonisti alla caduta del saggio di profitto:

1) Ritmi di lavoro più veloci e maggiore efficienza;
2) Diminuzione dei costi del lavoro;
3) Diminuzione dei costi dei macchinari e delle materie prime;
4) Utilizzo della manodopera in modo massiccio;
5) Commercio vantaggioso con l’estero.

Come indica anche Joseph Schumpeter è soprattutto la tecnologia a fornire un eccezionale mezzo per attuare i punti 1, 2 e 3. Lo sviluppo industriale è infatti la storia del progresso tecnologico che ha permesso di superare le fasi di stasi del capitalismo.
Grazie alla globalizzazione e alla tecnologia sono diminuiti i costi di produzione e i costi delle materie prime. Eppure è stata la stessa globalizzazione ad esaurire gli effetti positivi dei fattori antagonisti al calo del saggio di profitto. La globalizzazione ha eliminato la diversità e ciò ha comportato il crollo dei meccanismi alla base dello scambio utilitario (il fondamento del libero mercato). La disposizione a vedere il mondo in un’unica maniera ha inaridito le capacità intellettuali e l’indagine scientifica. Gli scienziati sono stati asserviti alle esigenze aziendali e hanno abbandonato la ricerca pura e le invenzioni alternative. I fattori antagonisti al calo del saggio di profitto sono drasticamente indeboliti. Dunque trarre profitto tramite il lavoro e la produzione è nell’economia contemporanea più difficile.
Tuttavia è la seconda motivazione dell’eclissi del capitalismo a spiegarci come sia possibile ancora il profitto. Il prezzo non è collegato più al valore. Questa scoperta è merito dell’economista Oomae Ken’ichi (9). Ed è abbastanza facile constatarlo. Il prezzo di un software non dipende dal lavoro occorso per produrlo. Ciò contraddice la teoria di David Ricardo e Karl Marx sul lavoro e la moneta. Semplicemente si è passati da una società industriale fondata sul lavoro a una società dei servizi fondata sull’informazione. Però la scoperta di Oomae costituisce anche una condanna definitiva del capitalismo. Ora la formula D-M-D’ non è valida perché il prezzo non è più stabilito da meccanismi automatici dettati dall’organizzazione del lavoro. Così la rotazione del capitale non è più la forza propulsiva del capitalismo.
L’eclissi del capitalismo non significa la fine dell’economia, piuttosto una diversa e nuova economia. Questa economia sfrutterà le conoscenze per l’acquisizione di vantaggi commerciali e finanziari. L’informazione diverrà merce e il prodotto più prezioso e ricercato.
I no global hanno in parte ragione e in parte torto. Sono nel giusto nel denunciare le storture del capitalismo che sono sintomi evidenti del suo declino. Ed è sensato ammettere che il mondo che conosciamo debba essere cambiato per rispondere alle esigenze dell’umanità. Sbagliano quando pretendono di trovare soluzioni politiche ai problemi economici scavalcando gli studi scientifici. Sbagliano ponendo la volontà al di sopra della conoscenza e ritenendo che il capitalismo sarà sconfitto dalla moltitudine ribelle. Il capitalismo è una forma economica e sarà abbattuto soltanto da un’altra forma economica. E in verità questo sta già accadendo.


Note

1. Cfr. Huntington, Samuel, Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
2. Eugenio Scalfari dalle pagine de "La Repubblica" ha definito gli articoli di Oriana Fallaci come un esercizio di retorica. Per l’opera della scrittrice si consulti il celebre pamphlet: Fallaci, Oriana, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano, 2001.
3. Ricordiamo alcuni libri: Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002; Klein, Naomi, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001.
4. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, p.50 e p.59.
5. Per fortuna c’è qualcuno che ha il coraggio di riconoscere questa condizione: Cfr. Glosserman, Brad, Il fattore Koizumi non basta più, in "Limes", n.3 / 2002, pp.115-122. "[…] sulle cause che hanno condotto a questa situazione c’è disaccordo" (p.121).
6. Molti analisti hanno sostenuto che l’economia giapponese peccasse di rigidità e hanno suggerito una forte iniezione di liberismo. In realtà fin dagli anni Ottanta si era applicata in Giappone la ricetta liberista, peggiorando soltanto le condizioni sociali. Cfr. Ito, Makoto, La crisi giapponese, in "La rivista del manifesto", n.19 luglio-agosto 2001.
7. Cfr. Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], La fine dello stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi, Milano, 1996.
8. Ito Makoto fornisce un’ampia e attendibile documentazione per sostenere le sue tesi. Cfr. Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
9. Cfr. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, p.330.

Bibliografia

Galbraith, John Kenneth, La società opulenta, Edizioni di Comunità, Milano, 1959.
Giddens, Anthony, Sociologia. Un’introduzione critica, Il Mulino, Bologna, 1983.
Marx, Karl, Per una critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1970.
Menger, Carl, Princìpi di economia politica, UTET, Torino, 1976
Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001.
Polanyi, Karl, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
Polanyi, Karl, Economie primitive arcaiche e moderne, Einaudi, Torino, 1980.
Ricardo, David, Princìpi dell’economia politica e delle imposte, UTET, Torino, 1954.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
Sahlins, Marshall, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1980.
Sakakibara, Eisuke, Japan Beyond Capitalism, Keizai Inc., Tokyo, 1990.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
Schumpeter, Joseph, Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
Sibilla, Paolo, Introduzione all’antropologia economica, UTET, Torino, 1996.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.

La ricerca scientifica

Kenkyu. Ricerca scientifica e tecnologia
di Cristiano Martorella

20 ottobre 2003. Ricerca scientifica in giapponese si dice kenkyu, parola usata genericamente per indicare uno studio o indagine intellettuale. Attività di ricerca è tradotto kenkyu katsudo, ricerca e sviluppo è kenkyu kaihatsu, mentre istituto di ricerca è kenkyujo. L’argomento è cruciale per l’economia poiché la ricerca scientifica costituisce il volano per l’innovazione, quindi per la razionalizzazione, l’ottimizzazione e lo sviluppo delle imprese. Inoltre in un sistema capitalistico, come spiegato da Joseph Schumpeter, l’innovazione tecnologica è il fattore che permette l’aumento della produzione a costi minori consentendo il profitto. Senza innovazione tecnologica l’azienda è destinata all’usura e all’obsolescenza. Mantenere una produzione industriale usando le stesse macchine e gli stessi materiali è economicamente svantaggioso. Altre scuole di economisti mettono in luce proprio ciò. Secondo la teoria marginalista la produttività si accresce all’inizio del ciclo fino a raggiungere un massimo per poi decrescere (postulato della produttività marginale decrescente). Perciò è necessario un cambiamento che permetta di superare questa tendenza negativa. Nel sistema industriale è l’innovazione tecnologica che garantisce ciò (fu Joseph Schumpeter, come prima anticipato, che studiò e analizzò gli aspetti e i ruoli cruciali delle tecniche applicate nell’economia).
Dopo una simile premessa si comprende perché vi sia tanto interesse per la ricerca scientifica in Giappone. Ronald Dore e Sako Mari furono gli autori del libro più noto sull’argomento (1). In Dentro il Giappone, essi svolgono un’analisi dettagliata e documentata mostrando aspetti ignorati. Ciò che gli autori mettono in risalto, è l’investimento considerevole delle imprese giapponesi per la formazione dei lavoratori. Il sistema educativo ha unicamente il ruolo di fornire una buona preparazione di base e conoscenze generali. La scuola non ha collaborazioni con l’industria e rimane relativamente indipendente. Viceversa le aziende si assumono una forte responsabilità nella formazione dei lavoratori. L’idea di fondo è che la scuola non possa preparare adeguatamente al lavoro essendo troppo teorica. Piuttosto che far perdere tempo agli studenti per acquisire competenze che non useranno mai realmente, si preferisce fornire una preparazione generale. La specializzazione può avvenire soltanto in azienda tramite il lavoro. Pensare di imparare un lavoro attraverso la teoria appresa sui banchi di scuola è decisamente utopico. Invece di costringere la scuola a fare ciò che le è impossibile, meglio scegliere una strada diversa. Questa alternativa è la formazione all’interno dell’azienda. Però questi corsi non sono affidati a specialisti della formazione esterni alla ditta. Piuttosto un ruolo importante è svolto dai colleghi. Soprattutto avviene che si ricorra a sistemi autonomi di verifica gestiti in modo indipendente, insomma un miglioramento autogestito. Secondo Dore e Sako, l’orgoglio di fare bene il proprio lavoro è spesso la più forte delle motivazioni. In conclusione, i successi del Giappone sarebbero stati ottenuti operando in contrasto con quelle che sono ritenute le linee di condotta ideali. Spontaneità e iniziativa individuale avrebbero più importanza della pianificazione. Si tratta di una interpretazione di Dore e Sako oppure si può estendere questo concetto alla intera economia giapponese? I fatti danno ragione ai due autori. Le vicende di Morita Akio, presidente e fondatore della Sony, sono la dimostrazione di questo atteggiamento. Anche la Toyota, il gigante industriale dell’automobile, ha seguito maggiormente le indicazioni della spontaneità e dell’iniziativa individuale teorizzate da manager come Ono Taiichi, Toyoda Kichiro, Ishikawa Kaoru, Imai Masaaki e Tanaka Minoru.
Un testo italiano che si occupa della ricerca scientifica in Giappone è l’opera (2) del bravo Andrea Tenneriello. L’autore, a cui va il merito di aver colmato le tante lacune della disciplina nipponistica nostrana, svolge un’analisi che parte da una precisa ricostruzione storica dal XVI secolo ai tempi odierni. Dopo aver individuato un motivo dello sviluppo nel processo di razionalizzazione operato dai Tokugawa, egli passa allo studio delle politiche che avrebbero favorito la diffusione di scienza e tecnologia. Un ruolo importante fu svolto nel dopoguerra dal Ministry of International Trade and Industry (MITI), in giapponese Tsuho Sangyosho, costituito nel 1949 e divenuto immediatamente determinante (3). Il MITI controllò praticamente le transizioni favorendo le grandi aziende nell’acquisizioni di macchinari e tecnologie dall’estero. Questa situazione permetteva alle imprese giapponesi di fissare obiettivi a lungo periodo, caratteristica che ha influenzato l’economia giapponese verso notevoli investimenti in progetti spesso futuribili e avveniristici. Nel 1996 fu istituita la Japan Science and Technology Corporation (JST), in giapponese Kagaku Gijutsu Shinko Jigyodan, organismo che faceva parte della Science and Technology Agency (Kagaku Gijutsu Cho). Gli obiettivi erano la promozione della ricerca di base, la cooperazione e lo scambio fra enti del governo, le università, l’industria privata e le istituzioni straniere, la diffusione dell’informazione, e infine la divulgazione. Fra i progetti più innovativi ricordiamo gli studi sulle nanomacchine, il vetro superliquido, le neuroscienze, la quantistica, i superconduttori (4).
Secondo Andrea Tenneriello la legislazione per la scienza e la tecnologia del 1995 (Legge n. 130, 15 novembre 1995) avrebbe spinto il Giappone a una profonda riforma degli enti pubblici e delle università a favore di una maggiore flessibilità, apertura e competitività. Ciò dovrebbe portare all’abbandono delle modalità operative del passato.
Vorremmo concludere con alcune considerazioni che allarghino il quadro finora fornito. Nonostante gli investimenti di risorse nella ricerca scientifica, il Giappone risente negativamente delle condizioni internazionali. Innanzitutto c’è da tenere presente che investire solo in ciò che si crede capace di produrre profitto è controproducente. Non si può conoscere qualcosa se prima non lo si studia. Anche in Giappone si assiste a una tendenza nel privilegiare il profitto rispetto alla conoscenza pura. D’altronde l’utilitarismo della scienza giapponese è ben noto ed ha anche avuto vantaggi notevoli evitando sprechi in indagini prive di valore.
L’altro effetto negativo è quello indicato da molti studiosi, fra cui l’economista Paul Krugman, che individuano in un eccesso si informazione l’immobilismo e il blocco dello sviluppo, e quindi (secondo le premesse esposte all’inizio) la recessione economica. Un eccesso di informazioni impedisce di fare una scelta, cioè agire. Questo fenomeno contemporaneo è talmente drammatico che è anche stato la causa del fallimento dell’intelligence americana che avrebbe dovuto sventare gli attacchi terroristici dell’undici settembre 2001. La crisi economica che già si era manifestata prima dell’attacco aveva le stesse cause. Il crollo della new economy fu provocato da investimenti sbagliati in settori scarsamente produttivi. La new economy che doveva creare una industria dell’informazione, non aveva gli strumenti informativi per valutare la validità di un progetto. Per quale motivo? L’eccesso di informazioni non permetteva alcuna valutazione. Questo sbilanciamento non permette il passaggio completo a un’economia dell’informazione e dei servizi che integri l’industria e spinga lo sviluppo. Così si rimane in una fase di transizione con aspetti regressivi e negativi. Ciò che serve è lo sviluppo di strumenti scientifici capaci di ordinare e selezionare l’informazione così da guidare la ricerca. Nemmeno i dirigenti giapponesi si rendono conto di quanto sia grave il problema dell’eccesso di informazioni che è anche causa della disoccupazione dei lavoratori del terziario (in proposito si considerino le ricerche dell’economista Jeremy Rifkin). Però il Giappone ha una speranza. In passato i maggiori risultati sono stati raggiunti spontaneamente dall’iniziativa individuale che ha trascinato interi settori. L’intraprendenza e la fantasia dei giapponesi non vanno sottovalutate. Esse valgono più dei programmi ministeriali.

Note

1. Dore, Ronald e Sako, Mari, Dentro il Giappone. Scuola. Formazione professionale. Lavoro, Armando Editore, Roma, 1994. Sako Mari tenne lezioni sull’impresa giapponese alla School of Economics di Londra, mentre Ronald Dore è stato l’autore di celebri saggi sull’economia giapponese e visiting professor all’università di Harvard.
2. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001. La prefazione è del giurista Mario Losano che valorizza il ricco testo dotato anche di un adeguato glossario in giapponese. Si veda anche Losano, Mario, Il diritto economico giapponese, Unicopli, Milano, 1984.
3. Si consulti per quanto riguarda il MITI il seguente testo: Johnson, Chalmers, MITI and Japanese miracle, Stanford University Press, Stanford, 1982.
4. Informazioni a livello divulgativo possono essere reperite sulla rivista "Look Japan".

Bibliografia

Dore, Ronald e Sako, Mari, Dentro il Giappone. Scuola. Formazione professionale. Lavoro, Armando Editore, Roma, 1994.
Dore, Ronald, Bisogna prendere il Giappone sul serio, Il Mulino, Bologna, 1990.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV convegno di studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell’impresa. Il Mulino, Bologna, 1975.
Nakayama, Shigeru. 1991. Science, technology and society in postwar Japan, Kegan, New York, 1991.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Schumpeter, Joseph, Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino, 1990.
Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Unicopli, Milano, 2001.

Economia e metodo

Dal 4 al 6 ottobre 2001 si è svolto il convegno dell'Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (AISTUGIA), presso la Domus Ciliota a Venezia. Anche Nipponico.com è stato presente per mezzo di un suo collaboratore, lo studioso Cristiano Martorella, che ha tenuto una relazione sulle implicazioni sociologiche dell'economia giapponese, che qui vi presentiamo in riassunto per chi non avesse avuto la possibilità di assistere.

Hohoron. Le implicazioni sociologiche dell'economia giapponese
di Cristiano Martorella

6 ottobre 2001. Lo scopo di questa relazione è riportare nell'alveo della sociologia una serie di studi che hanno impegnato i nipponisti. Per motivi storici, l'economia giapponese ha attirato l'attenzione di molti studiosi che hanno prodotto lavori con impostazioni diversissime e conclusioni opposte. Così il criterio di scienza viene gravemente minato nel momento stesso in cui la ricerca porta a risultati opposti e contraddittori. Ancora non si è concordi sulla definizione di economia giapponese, essendo addirittura contestata una specificità del sistema nipponico. A favore dell'esistenza di un modello giapponese, ad esempio, sono Ezra Vogel, Ronald Dore, Morita Akio, Nakane Chie, Claudio Zanier; contrari invece Paul Krugman e Karel van Wolferen. Quindi bisogna impostare una questione metodologica (hohoron) che permetta di discernere e comprendere tali difficoltà, nella speranza di risolverle.

La società giapponese

Alcuni studiosi giapponesi hanno sollevato obiezioni sui modelli sociali utilizzati per spiegare la realtà giapponese. Il caso più noto è quello rappresentato da Nakane Chie che già nel 1970 contestava alla sociologia occidentale di non considerare seriamente la specificità giapponese.Nel far ciò Nakane recupera alcune tematiche già affrontate in passato da importanti studiosi evidenziando che non è possibile prescindere dall'analisi metodologica (hohoron).L'idea che gli occidentali avrebbero dello sviluppo influenza il loro modo di vedere. Essi credono che il Giappone conservi delle sopravvivenze della tradizione feudale e che esse spariranno soltanto quando il Giappone sarà identico ai paesi occidentali. Nakane Chie respinge questo quadro teorico distinguendo struttura sociale e organizzazione sociale. Utilizzando un modello tripartito (cultura, struttura sociale, economia) possiamo accorgerci che esistono interazioni che permettono il rapporto ma non la dipendenza fra le tre istanze (già individuate in modi differenti nelle opere di Marx, Weber e Durkheim). Come insegna Anthony Giddens, si può avere un'identica economia con strutture sociali diverse. Questo mette in crisi il modello di sviluppo unidirezionale sostenuto da molti studiosi occidentali. La formazione dei modelli è molto più libera ed è determinata da un complesso di variabili amplissimo.

Il metodo di Weber

Se la sociologia rivela una incapacità nel descrivere compiutamente l'economia giapponese, bisogna mettere sotto indagine la scienza stessa che la presiede. L'autore fondamentale che già aveva incominciato questo lavoro fu Max Weber. Nessuno più di lui si spinse tanto in là nell'analisi dei principi su cui si basano le scienze sociali. Ritornare a Max Weber e rifondare le scienze sociali permette finalmente un approccio diverso all'economia e alla società giapponese. Innanzitutto Weber ha risolto brillantemente il problema dell'oggettività degli studi sociali. La questione risiede in una corretta definizione e comprensione dell'oggettività. Per Max Weber l'oggettività è una relazione fra soggetto e oggetto e come tale va trattata. La falsa e fuorviante concezione dell'oggettività è quella ipostatizzazione e neutralizzazione del rapporto soggetto/oggetto.Costruita artificialmente, la falsa oggettività nasconde il soggetto conoscente. Una corretta oggettività scientifica è quella che esplicita il soggetto, in termini pratici rende evidente lo studioso e il suo metodo (hohoron). Nishida Kitaro, il principale filosofo giapponese, considera nello stesso modo il rapporto soggetto/oggetto. Questa relazione è paritetica: il soggetto conosce se stesso tramite l'oggetto e apprende dell'oggetto tramite il sé.

Agire razionale

L'ulteriore passo che ci consente Max Weber è fondamentale per spiegare i comportamenti economici giapponesi. Weber distingue diverse tipologie dell'agire sociale:
1) Agire conforme allo scopo
2) Agire conforme al valore
3) Atteggiamento affettivo
4) Atteggiamento tradizionale
Per avere una comprensione dei comportamenti economici giapponesi è necessario avere una conoscenza delle variabili che determinano l'agire razionale (conforme allo scopo oppure al valore). Infatti è l'esistenza di valori diversi nella civiltà giapponese che conduce alle particolari azioni. L'errore metodologico di molti studiosi risiede nell'ignorare i valori giapponesi per riportare l'agire razionale giapponese ad un atteggiamento irrazionale (tradizionale o affettivo).

Cultura, società, economia

La filosofia giapponese ci ha insegnato che la logica orientale differisce da quella occidentale. Nishida Kitaro, Tanabe Hajime, Mutai Risaku e Takahashi Satomi elaborarono logiche alternative alla logica formale occidentale. Watsuji Tetsuro e Miki Kiyoshi misero in luce come le leggi del pensiero, ovvero la logica (ronri) fossero prodotti ambientali, storici e sociali. Studiare l'economia giapponese significa riconoscere questa specificità. L'agire economico, così come lo definiva Adam Smith, dipende anche dalla logica applicata, dalla scelta razionale. Una ignoranza della logica giapponese comporta come errore l'incapacità di riconoscere l'agire razionale confuso come irrazionale (tradizione ed emozione).Quali sono le conclusioni concrete circa l'economia giapponese? Se per Weber lo spirito del capitalismo era nato dall'etica protestante, per noi il buddhismo zen ha forgiato il sistema economico giapponese. Concetti come la qualità totale (kaizen) devono la loro origine all'insegnamento zen del miglioramento del sé. L'economia giapponese ha come finalità la produttività e i servizi piuttosto che una accumulazione di capitali.

Bibliografia

Nakane, Chie, La società giapponese, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1974.
Giddens, Anthony, Capitalismo e teoria sociale, Il Saggiatore, Milano, 1975.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1965-1966.

sabato 29 maggio 2010

Kisei kanwa, la deregulation

Kisei kanwa, la deregulation
Liberismo e libero mercato nell’economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 dicembre 2002. Deregulation si dice in giapponese kisei kanwa. Un altro modo per dire deregulation è kisei teppai. C’è una leggera differenza fra le due espressioni. Kisei significa regolamentazione. Kanwa è un’attenuazione, mentre teppai è un’abolizione. Dunque i giapponesi preferiscono tradurre deregulation con kisei kanwa che ha il senso di una diminuzione delle regole, così come nel significato originale del termine deregulation (deregolamentazione).
Prima di trattare l’argomento in questione è necessaria una premessa. La società e l’economia giapponese hanno una propria specificità che si è realizzata attraverso il particolare sviluppo storico e culturale del paese. Tuttavia questa specificità non impedisce di inquadrare il Giappone in un contesto internazionale secondo le tematiche universali della politica e della sociologia. D’altronde il contrasto fra particolarità e universalità è un problema filosofico ancora dibattuto. Eppure nessuno studioso serio metterebbe in dubbio l’efficacia del metodo comparativo. La comparazione è uno strumento storiografico che serve a cogliere corrispondenze e differenze specifiche (1). Fu lo storico Noro Eitaro (1900-1934), autore di Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) che dimostrò l’utilità del taglio comparativo capace di trattare i fenomeni giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. E non possiamo dimenticare che il più autorevole sociologo, Max Weber (1864-1920), fu un tenace sostenitore nonché teorico e utilizzatore del metodo comparativo. Secondo Weber la spiegazione causale dei fenomeni culturali concerne la relazione individuale fra fenomeni storici e non la sussunzione di questi dentro un sistema di leggi generali, come avviene invece per le scienze naturali. Così si salva il carattere oggettivo e scientifico dell’indagine senza precludere la possibilità di stabilire relazione esplicative tra i fenomeni storici. Dunque non c’è motivo di dubitare della validità del metodo storico comparativo.
Il liberismo è la teoria economica che sostiene il vantaggio personale come unico e autentico stimolo per l’uomo ad operare in economia. Pertanto il sistema economico più consono sarebbe la libertà d’impresa o libera iniziativa. A livello macroeconomico il liberismo si esprime eliminando il protezionismo, le barriere doganali, i vincoli amministrativi, gli ostacoli tariffari, e favorendo viceversa il libero mercato. Inoltre sostiene la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza.
Al liberismo possono essere associati i nomi di importanti economisti: Adam Smith, David Ricardo, William Jevons, Carl Menger, Vilfredo Pareto, Friedrich August Hayek, Milton Friedman e Maurice Allais.
Negli anni ’80 del XX secolo la dottrina liberista ebbe due eccezionali interpreti nel presidente statunitense Ronald Reagan e nel premier britannico Margaret Thatcher. Essi operarono su vasta scala e in modo intensivo proclamando la fiducia nel libero mercato. Margaret Thatcher smantellò lo stato assistenzialista (welfare state) che era causa di un forte indebitamento pubblico. La politica economica di Reagan chiamata "reaganomics" era fondata sulla diminuzione della pressione fiscale sulle imprese per favorire gli investimenti dei privati.
La deregulation (deregolamentazione) è una politica mirante alla trasformazione delle regole alle quali debbono sottostare le imprese in modo da renderle più libere di agire e rinforzare così la loro concorrenzialità. La deregulation fornisce anche la possibilità alle imprese private di entrare in settori precedentemente controllati dallo stato (per esempio i trasporti, le telecomunicazioni, i servizi pubblici).
Il premier Koizumi Jun’ichiro, eletto nel 2001, fu il primo politico giapponese a includere nel suo programma riforme liberiste che includevano una deregulation del mercato del lavoro. Ciò sollevò le preoccupazioni di un ampio strato della popolazione ormai abituata al posto fisso. Gli economisti giapponesi si pronunciarono senza riserve sulla questione della deregulation. Secondo Ohmae Kenichi (trascritto anche Omae Ken'ichi) il Giappone ha un debito pubblico insostenibile. Per superare questa impasse sarebbe necessario un batan (colpo). Bisognerebbe eliminare le banche e gli istituti finanziari in condizioni disastrate e accettare un elevato tasso di disoccupazione.

"Inoltre il governo giapponese dovrebbe ammettere la necessità di entrare in un lungo tunnel. Deregolamentando l’economia e lasciandosi catapultare nel tunnel, il Giappone potrebbe dare impulso alla produzione di nuova ricchezza. […] Perché il piano funzioni bisogna che il governo accetti l’idea di un aumento della disoccupazione fino a un tasso del 7-8% (forse anche con punte di oltre il 10%), che crea mobilità nel mercato del lavoro. […] In tutta onestà, la nostra famosa rete di sicurezza per i dipendenti garantisce troppa sicurezza, al punto che nessuno si muove." (2)

Questa posizione a favore della deregulation ha trovato numerosi oppositori in Giappone, in particolare gli economisti Tachibanaki Toshiaki e Ito Makoto che hanno indicato nella svolta liberista giapponese la causa delle crescenti disuguaglianze economiche e del disagio sociale.

"In ogni modo, attraverso questo processo di riforma economica e di ristrutturazione politica che ha l’obiettivo di creare un mercato sempre più competitivo all’interno di un sistema neoliberista, la società giapponese sta rafforzando la sua natura capitalistica di paese dipendente dalla grande impresa: una nazione che, per realizzare questi obiettivi, tende a opprimere le masse di lavoratori, combinando un mercato del lavoro sempre più competitivo a un sindacato sempre più debole. E se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato una tendenza verso un sistema di eguaglianza sociale economica, è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca, della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle altre istituzioni finanziarie. In una ricerca statistica del 1998 Tachibanaki rivelava che l’indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito in Giappone era cresciuto rapidamente tra gli anni ’80 e ’90, e aveva superato sorprendentemente quello degli Stati Uniti. Questa trasformazione sociale del Giappone verso una crescita delle disuguaglianze sarà controproducente per la ripresa economica, anche se può essere considerato il risultato paradossale della riuscita ristrutturazione di un’economia capitalistica di mercato competitiva." (3)

Ito Makoto fornisce una interpretazione opposta al punto di vista di Ohmae Kenichi, ma è importante notare come egli riconosca l’esistenza della deregulation in Giappone. Entrambi gli autori descrivono la tendenza dell’economia giapponese al liberismo, ma mentre Ito Makoto la condanna, Ohmae Kenichi l’incoraggia. Un altro economista favorevole alla deregulation e al liberismo è Noguchi Yukio. Egli è un convinto assertore della necessità di riforme economiche eliminando l’impiego a vita, i salari in relazione all’anzianità di servizio e tutte quelle protezioni che impediscono la competizione. Dal punto di vista finanziario Noguchi critica la finanza pubblica centralizzata imperniata sulle imposte indirette e la protezione dei settori a bassa produttività. Insomma, egli propone la ricetta neoliberista di Reagan e Thatcher: chi non è in grado di sostenere la concorrenza deve fallire ed essere espulso dal mercato. Ogni tipo di assistenzialismo è eliminato. Noguchi Yukio è anche favorevole alla globalizzazione che considera un’occasione per competere sul libero mercato internazionale.
Non è facile destreggiarsi fra i diversi sostenitori delle teorie economiche. In questo senso sono utili le considerazioni di Sasaki Tadao che condanna la scellerata politica monetaria degli anni ’90.

"All’origine dell’inasprimento della crisi è il fallimento delle politiche economiche, ma è stata la ricetta monetarista che ha portato al restringimento dei cordoni della spesa pubblica, al rialzo delle tasse sui consumi di due punti percentuali nel 1997 […] Burocrati ed economisti della corrente maggioritaria, nel periodo successivo allo scoppio della bolla nel 1990, ignorarono l’opinione che fossero necessarie riparazioni di grande portata per i bad loans [prestiti inesigibili, ndr] a causa del carattere della crisi, determinata dal crollo dei prezzi delle attività finanziarie, e sostennero che fosse sufficiente proseguire la deregolamentazione mantenendo politiche di stimolo congiunturali operanti sugli aspetti di flusso dell’economia. L’idea che l’avvicinamento a un mercato ideale porti al rafforzamento dell’economia giapponese non è altro che ideologia dogmatica." (4)

Sasaki Tadao individua il nocciolo della questione. La fiducia nel libero mercato sembra un atto di fede piuttosto che la propensione razionale allo scambio utilitario (dottrina del liberismo di Adam Smith). Se la teoria liberista pone come condizione imprescindibile la libera concorrenza, possiamo porre lo stesso liberismo nel mercato delle idee economiche. Il fallimento delle politiche liberiste e della deregulation comporterà inevitabilmente il loro abbandono, altrimenti sarà il loro successo a decretarne la validità.

Note

1. Cfr. Hintze, Otto, Storia, sociologia, istituzioni. Introduzione di Giuseppe Di Costanzo. Morano Editore, Napoli, 1990, p.8.
2. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, p.260.
3. Ito, Makoto, La crisi giapponese, in "La rivista del manifesto", n.19 luglio-agosto 2001.
4. Cfr. Collotti Pischel, Enrica (a cura di), Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999, p.345.

Bibliografia

Drucker, Peter, La società post-capitalistica, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
Hammer, Michael e Champy, James, Ripensare l’azienda, Sperling & Kupfer, Milano, 1994.
Jenkins, Clive e Sherman, Barrie, The Collapse of Work, Eyre Methuen, London, 1979.
Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Takahashi, Makoto, Toyota breaks new ground with cost-cutting system, in "The Nikkei Weekly", 23 settembre 2002, p.10.
Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi [Omae, Ken'ichi], Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001.
Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], Il mondo senza confini: lezione di management nella nuova logica del mercato globale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1991.

La deflazione

Defure: la spirale deflazionistica
di Cristiano Martorella

22 febbraio 2002. La parola giapponese "defure" è una abbreviazione di defureeshon (adattamento dall’inglese deflation). Purtroppo è divenuta di uso abituale per l’economia giapponese a partire dall’ultimo decennio del XX secolo. In particolare, è stata usata l’espressione "shinkosei defureeshon" (spirale deflazionistica) per descrivere la gravità della situazione nipponica.
Il premier Koizumi Jun’ichiro dichiarò, dopo un incontro a Tokyo con il presidente statunitense George Walker Bush (18 febbraio 2002), che avrebbe varato una manovra per opporsi alla deflazione che affliggeva il Giappone. Il grido d’allarme di Koizumi era soltanto l’apice di una situazione che si protraeva da tempo. La recessione economica che si era manifestata a partire dal 1991, portava con sé anche questo fenomeno deflazionistico.
Prima di saltare a facili conclusioni partendo da considerazioni astratte e generiche, cerchiamo di definire meglio il problema che stiamo analizzando. Iniziamo, quindi, da una considerazione tecnica del fenomeno deflazionistico. La deflazione è il fenomeno opposto all’inflazione. Mentre l’inflazione è un aumento costante dei prezzi, la deflazione è una diminuzione del tasso di inflazione in negativo, e una costante diminuzione dei prezzi (ossia un indice negativo d’inflazione). Il fenomeno deflazionistico è piuttosto raro. Al contrario è stato un tasso d’inflazione troppo elevato a preoccupare i governi occidentali, in particolare nel 1973 a causa della crisi petrolifera. Fra il 1973 e il 1980, la crisi dell’economia occidentale è stata caratterizzata da un doppio fenomeno: forte inflazione e grave disoccupazione. Le politiche economiche per combattere l’inflazione ebbero degli interpreti particolari in Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La politica economica statunitense degli anni ’80 (chiamata reaganomics) era fondata sulla diminuzione della pressione fiscale sulle imprese e i ricchi contribuenti. In modo simile, Margaret Thatcher risanava l’economia inglese smantellando il welfare state e diminuendo la spesa pubblica. In effetti il pericolo inflazionistico era già scongiurato all’inizio dell’ultimo decennio del XX secolo.
In Giappone la situazione ebbe dei bruschi capovolgimenti. Nel 1969 l’inflazione era intorno al 5,5. Nel 1970 raggiunse il 7,7. Nel 1972 il governo pianificò un incremento dell’inflazione per impedire l’apprezzamento dello yen. Così nel 1973 vi fu un deciso aumento dei prezzi, dal 7,5 al 10,5 fino a giungere al 12,5 nei primi tre trimestri. La crisi petrolifera degli anni 1973-1974 portò a un’inversione delle politiche monetarie, preferendo sopravvalutare lo yen mantenendo alta l’inflazione. Dopo il 1986 la crescita fu spinta dalla "bubble economy" (baburu keizai) attraverso una politica speculativa sui prezzi degli immobili e del mercato azionario. Il meccanismo si inceppò e nel 1991 il Giappone si ritrovò in una grave fase recessiva caratterizzata da un elevato debito pubblico e una contrazione della produzione. A causa di un inasprimento delle imposte (in particolare la tassa sui consumi, shohizei) e una diminuzione della spesa pubblica, si erano create le condizioni per una forte deflazione.
Purtroppo questo fenomeno era involontario, e si trattava di una conseguenza della singolare recessione economica del Giappone. La forte contrazione della domanda interna e il ribasso della produzione erano fattori concomitanti (e già presenti) che si accoppiarono all’aumento delle imposte e alla diminuzione della spesa pubblica creando la spirale deflazionistica. Si deve considerare che la "bolla speculativa" degli anni ’80 aveva creato una grave anomalia, gonfiando a cifre astronomiche i prezzi degli immobili e creando, di conseguenza, un irrealistico mercato interno. A ciò si aggiunge la difficoltà a far crescere la domanda di importazioni. Quest’ultimo punto si ripercuote come problema poiché crea un’immobilità e una situazione stagnante del mercato.
C’è una questione delicata e importante che si è tralasciata: la funzione dell’inflazione nella produzione di profitto. Come è stato evidenziato da John Maynard Keynes, l’inflazione determina effetti redistributivi che si ripercuotono sul risparmio, gli investimenti, la produzione e l’occupazione. Se si tengono presenti queste relazioni, si può constatare un fenomeno osservato da alcuni economisti. Una moderata inflazione è benefica e fruttuosa per l’impresa. Infatti, le merci acquistate per la fabbricazione del prodotto, avranno un valore maggiore alla fine del processo di produzione. Ciò provoca un surplus di profitto sul prezzo del prodotto finale che subirà un aumento di prezzo immediato anche se le materie di fabbricazione erano in stoccaggio e pagate a un prezzo molto inferiore. Ciò significa che la deflazione giapponese si ripercuote negativamente sui profitti delle imprese in modo gravoso. In parte il danno viene ammortizzato dal fatto che da parecchi decenni molte imprese giapponesi adottano un sistema di produzione just in time che permette di affrontare crisi di questo tipo.
L’anomalia del fenomeno deflazionistico richiede una risposta radicale applicabile però in un periodo di lunga durata. Le condizioni economiche del Giappone non permettono nessun singolo rimedio. L’intera struttura economica, scossa dalla crisi, si sta muovendo in direzione di una riforma strutturale complessa. Come è stato osservato anche da numerosi analisti occidentali, non è sufficiente un unico intervento. Si dovrà intervenire su molti punti: svalutazione dello yen, politica monetaria della Banca del Giappone, riforme fiscali, nazionalizzazione delle banche, deregulation, privatizzazione delle imprese, fallimento delle imprese in passivo.
Ma il maggior sforzo da compiere sarà trovare soluzioni adatte al contesto giapponese, senza affidarsi a soluzioni prefabbricate occidentali, le quali si sono dimostrate inaffidabili come ha osservato l’economista Omae Ken’ichi. In conclusione, l’anomalia del fenomeno deflazionistico nipponico è un ulteriore indizio della particolarità dell’economia giapponese.

Bibliografia

Ikeya, Akira, Koizumi Calls Deflation Top Priority, in "The Nikkei Weekly", 18 febbraio 2002, p.1.
Ito, Makoto, The World Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, New York, 2000.
Ito, Takatoshi, The Japanese Economy, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge (Mass.), 1992.
Okamura, Masahiro, Gendai Nihon keizai shisutemu no genryu, Nihonkeizai Shinbunsha, Tokyo, 1993.
Okabe, Naoaki, Policy-makers Should Aim to End Deflationary Spiral, in "The Nikkei Weekly", 18 febbraio 2002, p.7.
Omae, Ken’ichi [Ohmae Kenichi], Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001.

Kojo, la fabbrica giapponese

Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella

4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.

"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."

Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:

" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."

Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.

Bibliografia

Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.

Shigoto, lavoro e rivoluzione industriale

Shigoto. Lavoro, qualità totale e rivoluzione industriale giapponese
di Cristiano Martorella

8 dicembre 2002. Si è scritto molto, forse troppo e in modo confuso, sulla qualità totale inserendo questo concetto in contesti spesso inopportuni (ad esempio la scuola) e mancando la comprensione del fenomeno autentico e affidandosi alla sua rappresentazione. Alcuni hanno sostenuto che i giapponesi avrebbero copiato come al solito dagli occidentali, ovvero dalle idee di Edwards Deming, il primo teorico della qualità totale. Questo è falso perché le intuizioni di Deming sono state accolte dai giapponesi e sviluppate in un modo che l’autore non avrebbe mai immaginato. Inoltre la qualità totale è divenuta nelle aziende giapponesi qualcosa di assolutamente contestualizzato alla situazione storica e culturale del paese, tanto da essere ancora oggetto di studio. E ciò risulta vero dall’osservazione delle difficoltà occidentali nell’imitare le tecniche giapponesi (1). Infatti i giapponesi usano il termine autoctono kaizen (miglioramento) in sostituzione del termine qualità totale, così da caratterizzare meglio la novità da loro apportata. E vedremo di quale rivoluzione si tratta.
Shigoto significa in giapponese lavoro. Ed è appunto il cambiamento nelle condizioni e nell’organizzazione del lavoro ad aver segnato lo sviluppo industriale e l’ascesa del capitalismo. Nella storia economica si indicano due rivoluzioni industriali avvenute in Europa. La prima avvenuta intorno al 1760 vide il passaggio dall’industria domestica alla fabbrica attraverso l’introduzione di nuovi macchinari (filatoio meccanico, macchina a vapore, laminatoio, etc.) e maturò nel periodo dal 1815 al 1840 grazie allo sfruttamento dell’energia termica ricavata dal carbone. La seconda rivoluzione industriale incominciò intorno al 1890 e fu favorita da una serie di innovazioni tecnologiche (il motore a combustione interna, il motore elettrico, etc.) e lo sfruttamento dell’energia elettrica e dell’energia termica ricavata dagli idrocarburi, indispensabili anche nella chimica. L’industria subì un’ulteriore trasformazione con l’introduzione della produzione a catena di montaggio di tipo fordista.
Fin qui abbiamo tracciato il quadro descritto nei libri di storia, ma esiste una storia che non è ancora ufficiale nonostante sia stata registrata da molti studiosi: la rivoluzione industriale giapponese.
La terza rivoluzione industriale avvenne intorno al 1974 con l’introduzione della produzione just in time e della qualità totale di tipo Toyota, e maturò grazie allo sfruttamento dell’informatica e delle tecnologie dei semiconduttori. La rivoluzione industriale giapponese segna anche il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione poiché integra i processi produttivi nel nuovo sistema sociale.
Così come le prime due rivoluzioni industriali avvennero per rispondere ai gravi periodi di crisi economica, anche la terza fu la risposta a una seria crisi, quella petrolifera del 1973. All’epoca il Giappone, a differenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, non aveva nemmeno risorse petrolifere sul proprio territorio ed era in balìa dei rifornimenti stranieri. Non potendo eliminare questa dipendenza, gli industriali nipponici sollecitarono una ristrutturazione che permettesse la produzione anche in periodo di crisi. Il modello americano sul tipo di Henry Ford (1863-1947) fu abbandonato a favore del modello giapponese di Toyoda Kiichiro. Il concetto di lavoro (shigoto) fu rivisitato completamente.
Cominciamo con ordine stabilendo alcuni punti fondamentali per inquadrare quest’ultima rivoluzione industriale. Sono due i punti essenziali da ponderare:

- il rovesciamento della logica del marketing;
- la trasformazione dell’industria in un sistema informatico.

I sociologi hanno colto meglio il significato della rivoluzione industriale giapponese che era soprattutto concentrata nell’organizzazione del lavoro, e perciò sensibilmente trascurata dagli economisti attenti ai dati macroeconomici e dagli storici interessati alla cronaca. La comprensione riguardava piuttosto la psicologia sociale e le scienze sociali (2). I sociologi hanno dunque indicato quei cambiamenti nel lavoro che essi definiscono come avvento del postfordismo (altri chiamano questo nuovo modo di produrre come toyotismo, dal nome dell’azienda giapponese Toyota che lo introdusse per prima). Questi cambiamenti si articolano in diverse tecniche dell’organizzazione del lavoro. La qualità totale sostituisce la produzione in linea, basata sulla catena di montaggio, con le isole di produzione o circoli di qualità. I singoli lavoratori non sono specializzati in poche ed elementari mansioni ma hanno più mansioni e una capacità di controllo sul processo produttivo. Il controllo è infatti interno e autogestito dai lavoratori. Nell’organizzazione taylorista (3) del lavoro, il controllo era esterno e basato sulla divisione tra chi lavora e chi controlla il lavoratore. L’azienda diventa una rete. L’azienda rete si differenzia dall’azienda piramide perché privilegia la fase di vendita rispetto alla fase di produzione. I contatti diretti con la clientela assumono un ruolo preminente e l’innovazione proviene da chi lavora operativamente. L’innovazione è proposta dalla base, e non c’è un vertice che pianifica il lavoro. L’informazione e le comunicazioni sono orizzontali piuttosto che verticali. La produzione just in time (nel tempo opportuno) tiene presenti le richieste dei compratori e basa la produzione, per quantità e qualità, sulla domanda del mercato. Vengono abolite le scorte di magazzino e introdotta la flessibilità dei processi lavorativi.
Complessivamente queste innovazioni sono integrate in un sistema che rende possibile sia il rovesciamento della logica del marketing sia la trasformazione dell’industria in un sistema informatico. E ciò avviene necessariamente insieme perché soltanto una gestione integrata dell’informazione può permettere la soddisfazione dei requisiti della qualità totale prima enunciati. Il rovesciamento della logica del marketing significa porre la soddisfazione del cliente come primaria. Invece di tentare di convincere gli acquirenti, bisogna venire incontro alle loro esigenze e abbandonare la concezione della produzione di massa standardizzata. Ogni processo produttivo deve essere flessibile e capace di apportare cambiamenti e miglioramenti (kaizen). Questo può avvenire soltanto in una fabbrica capace di comunicare istantaneamente le informazioni sui processi e le condizioni della produzione. Gli strumenti per far ciò sono il kanban (cartello) e lo andon (pannello). Si tratta di mezzi molto semplici ed elementari che hanno dimostrato quanto l’organizzazione del lavoro fosse importante, e semplici innovazioni basate sulla comunicazione divenissero determinanti. L’introduzione delle nuove macchine informatiche elettroniche esalta e accelera questa tendenza abbattendo le vecchie logiche e i vecchi dispositivi.
La rivoluzione industriale giapponese ha così trasformato la fabbrica in un sistema informatico ed ha liberato l’uomo dal lavoro meccanico, trasformandolo in un supervisore dei processi produttivi. Ciò avviene in un periodo storico che vede il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. Questa svolta epocale sarà ben compresa quando il passaggio alla società dei servizi e dell’informazione sarà completato.

Note

1. Si è arrivati addirittura a negare i successi giapponesi attribuendo il merito alle metodologie occidentali presumibilmente copiate. Eclatante il caso di un articolo di "Business Week" decisamente propagandistico e falso. Cfr. Dawson, Chester et alii, The Americanization of a Japanese Icon, in "Business Week", 15 aprile 2002, pp.26-30.
2. Recentemente molti manuali di sociologia hanno inserito paragrafi sulle innovazioni imprenditoriali giapponesi. Cfr. Ungaro, Daniele, Capire la società contemporanea, Carocci, Roma, 2001, pp.50-61.
3. Cfr. Taylor, Frederick, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano, 1952.

Bibliografia

Deming, Edwards, What Top Management Must Do, in "Business Week", 20 luglio 1981, pp.19-21.
Drucker, Peter, Getting Control of Corporate Staff Work, in "The Wall Street Journal", 28 aprile 1981, p.24.
Imai, Masaaki, Kaizen. La strategia giapponese del miglioramento, Il Sole 24 Ore, Milano, 1986.
Ishikawa, Kaoru, Guide to Quality Control, Asian Productivity Organization, Tokyo, 1972.
Ishikawa, Kaoru, Che cos’è la qualità totale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1992.
Ohno, Taiichi [Ono, Taiichi], Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale, Einaudi, Torino, 1993.
Pollard, Sidney, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Il Mulino, Bologna, 1989.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Taguchi, Genichi [Taguchi Gen'ichi], Introduzione alle tecniche per la qualità, Franco Angeli, Milano, 1991.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.

Kaizen contro kakushin

Un dualismo controverso: kaizen contro kakushin
di Cristiano Martorella

17 dicembre 2000. La nozione di kaizen (miglioramento), introdotta dai giapponesi nel sistema di produzione, comporta una revisione dei concetti occidentali alla base dell'idea di sviluppo industriale. Con l'adozione della logica del kaizen, si introduce un rapporto con il kakushin (innovazione) che può essere anche conflittuale. Kakushin equivale al concetto espresso in inglese con il termine breakthrough, ed è la realizzazione di un progetto di trasformazione in una prospettiva futura. Esso comporta la rimozione di fattori d'ostacolo e il rinnovamento delle strutture di produzione. I giapponesi non negano l'importanza dell'innovazione all'interno della fabbrica, ma la avvertono come una minaccia se essa non è interna a un processo di miglioramento continuo (kaizen). Secondo Tanaka Minoru, l'autentica innovazione è il risultato della sommatoria del prodotto di kaizen e kakushin. Per i giapponesi, l'innovazione deve essere integrata al miglioramento, se non addirittura subordinata. Non si possono introdurre cambiamenti se la qualità del processo di produzione non è buona.Innovare significa anche rompere la continuità del processo, obbligare a un salto, e sovente con gravi spese e perdite. Sarà sicuramente vero che le perdite presenti dovute all'innovazione vengono compensate e superate dai profitti che essa fornisce nel futuro. Ma questa logica non può essere sempre adottata, e dipende anche dal tipo di economia che la sostiene. Ammortizzare delle spese è possibile in un sistema che possiede ampie riserve. Non è sempre così. E questo spiega il mancato decollo delle economie dei paesi sottosviluppati che non hanno la possibilità di sostenere un sistema industriale. L'idea dello storico ed economista Rostow, teneva presente appunto questa situazione. Il decollo dello sviluppo industriale (take off) deve avere alle spalle un'accumulazione di capitale e di risorse. L'economia giapponese del dopoguerra non godeva di tale condizione, e ha dovuto ricorrere a un sistema di produzione mirato ai propri mezzi ed esigenze. Mentre Rostow, criticato aspramente da Gerschenkron, credeva che esistessero delle condizioni pregiudiziali per la crescita economica e un'unica tipologia di sviluppo, il Giappone dimostrava nei fatti che era possibile anche un modello diverso di organizzazione industriale.Ono Taiichi ci ricorda come nel dopoguerra i giapponesi fossero consapevoli delle diverse condizioni in cui si trovassero, e che le loro scelte di economia aziendale non si potevano rifare a un'imitazione pedissequa del modello statunitense per loro improponibile. Un'altra critica al kakushin (innovazione) è di tipo caratteriale ed emotivo. Gli occidentali hanno la tendenza a cambiare totalmente qualcosa che non funziona, buttando magari via un lavoro che necessitava di ritocchi, oppure che aveva in sé delle caratteristiche positive. Ricordiamo che il Walkman che oggi tutti noi conosciamo e usiamo, non è altro che la versione modificata e migliorata di un magnetofono portatile che era fallito miseramente, ma che fu ripreso da Morita Akio e lanciato sul mercato con successo inaspettato. Alla riluttanza nei confronti del kakushin (innovazione) corrisponde quindi un atteggiamento caratteriale. Ai giapponesi non piacciono le riforme che comportano cambiamenti drastici. E qui passiamo dal livello della produzione industriale a quello più articolato dell'economia finanziaria. Le pressioni degli occidentali sul sistema giapponese per l'introduzione di riforme strutturali non ha mai portato a buoni risultati. Le lamentele degli analisti si sono fatte sentire con più forza a partire dagli anni '90. Un articolo di Robert Neff intitolato Fixing Japan, apparso su "International Business Week", sintetizzava bene le ragioni che spingevano a tali critiche. Tuttavia il Giappone cambia, e spesso radicalmente, ma mai secondo le aspettative degli occidentali. In realtà le lamentele degli analisti occidentali sono giustificate. I giapponesi non applicano riforme, piuttosto si limitano a "miglioramenti". Sarà pure significativo il fatto che nella storia del Giappone non è stata mai messa in discussione l'autorità dell'Imperatore, nemmeno nel periodo dello shogunato che vedeva il potere effettivo nelle mani del Generalissimo, riducendo la figura dell'Imperatore a una formalità. Tuttavia fu proprio un Imperatore del periodo Meiji (1868-1912), Mutsuhito, a spingere il Giappone al rinnovamento e all'adozione di quel sistema industriale che ha posto le basi della piena parità con le potenze occidentali. Tutte queste stranezze non possono essere sempre additate all'arcaismo della struttura sociale giapponese. Ragionare in termini di miglioramento comporta uno scontro con l'idea stessa di sviluppo industriale. Schumpeter aveva individuato nelle innovazioni tecnologiche il meccanismo che consentiva lo sviluppo economico superando le crisi cicliche che porterebbero alla stasi di qualunque sistema economico. Le innovazioni costituivano una sorta di volano per l'economia introducendo un elemento inaspettato e non presente nelle variabili delle funzioni matematiche: l'intelligenza umana. Ma l'introduzione del sistema giapponese di produzione ha comportato un modo diverso di vedere la realtà. Ed è difficile negare che non sia cambiato profondamente anche lo sviluppo storico ed economico.Probabilmente dovremo aspettare la conclusione di questi processi per capire seriamente il fenomeno. Sono trascorsi pochi decenni dai cambiamenti di cui abbiamo parlato, ed è eccessivo pretendere di descrivere tali processi come se fossero già conclusi.Finora molte previsioni degli economisti non si sono realizzate, e il Giappone resta ancora una incognita indisponente per chi vorrebbe vedere il mondo governato dall'omogeneità dello sviluppo economico.

Bibliografia

Gerschenkron, Alexander, La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino, 1976.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell'impresa, Il Mulino, Bologna, 1975.
Morita, Akio e Ishihara, Shintaro, No to ieru Nihon, Kobunsha, Tokyo, 1989.
Neff, Robert, Fixing Japan, in "International Business Week", 29 marzo 1993, pp.38-44.
Ono, Taiichi [Ohno Taiichi], Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino, 1993.
Rostow, Walt Whitman, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.
Schumpeter, Joseph, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.