mercoledì 14 luglio 2010

Chishiki conoscenza e ignoranza

Chishiki
La conoscenza attraverso la consapevolezza dell’ignoranza
di Cristiano Martorella

18 settembre 2002. Chishiki to mushin, ovvero conoscenza e vuoto mentale. Due realtà apparentemente opposte. Però la filosofia giapponese fornisce alcuni concetti alternativi al pensiero occidentale che costituiscono un fondamentale arricchimento del sapere umano. Questa semplice osservazione si rivela ancor più vera dinanzi ai concetti di conoscenza (chishiki) e ignoranza.
Negli ultimi anni si è consolidata in Occidente una concezione della conoscenza esposta dall’epistemologia americana. In particolare il funzionalismo computazionale ha propagandato una visione del pensiero riconducibile alla macchina a stati finiti ideata da Alan Turing. L’idea di una macchina pensante fu sostenuta da Turing in un celebre articolo apparso nella rivista "Mind" nel 1950 (1).
Piuttosto che affrontare complesse indagini sulla natura del pensiero, Alan Turing si limitò a proporre la possibilità che una macchina potesse imitare le risposte di un uomo rendendosi indistinguibile. Il "test di Turing" prevedeva che l’intelligenza artificiale non sarebbe stata distinguibile dall’intelligenza umana.

"Un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano." (2)

Il successo del funzionalismo computazionale fu favorito dal rapido sviluppo dei calcolatori e dell’informatica che sembrava convalidare le tesi e l’ottimismo di Alan Turing (3). Ma la tesi secondo cui la mente funziona come un computer digitale non si basa su risultati concreti, piuttosto è la considerazione dell’idea dell’intelligenza come calcolo e manipolazione formale di simboli (una tradizione consolidata nella scienza occidentale e anticipata da Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz). Si tratta dunque di una teoria interna alla filosofia occidentale, e non è affatto un problema di ingegneria elettronica come appare.
Tuttavia l’intelligenza artificiale aveva assunto un ruolo talmente propositivo da diventare un argomento filosofico autonomo, specialmente in quella disciplina definita filosofia della mente (ma anche nella filosofia del linguaggio e della scienza, nella psicologia cognitiva, senza dimenticare il ruolo dominante nelle neuroscienze). L’epistemologia americana diede immensa considerazione alle teorie e ricerche di questi studiosi. Allen Newell ed Herbert Simon sembrarono rappresentare i capostipiti di una nuova concezione della mente, del pensiero e della filosofia. Qualcosa che sembrava fornire risultati più concreti delle precedenti tradizioni filosofiche. Jerry Fodor ed Hilary Putnam contribuirono ad elaborare un insieme di tematiche che diedero spessore e dignità all’intelligenza artificiale come disciplina filosofica. Ciò ebbe una ricaduta notevole sulle consuete concezioni di conoscenza e pensiero. Fodor fornì anche un tentativo di spiegazione del funzionamento della mente umana e del linguaggio (4).
Nonostante l’approccio orientato alla tecnologia, l’epistemologia americana si rivelava più conservatrice di quanto invece apparisse. Il modello dell’uomo come macchina era un’elaborazione cartesiana (5). Risulta interessante constatare come il dualismo cartesiano mente/corpo corrisponda al dualismo informatico software/hardware, rivelando l’antichità di questa concezione. E la formalizzazione del linguaggio era un progetto leibniziano (6).
L’epistemologia americana non ha fatto altro che radicalizzare una tendenza della filosofia occidentale giustificandola con i successi della tecnologia informatica. Purtroppo queste discipline sono accostate in modo arbitrario. L’ingegneria elettronica non necessita di alcuna giustificazione filosofica, mentre l’epistemologia sembra approfittare dei vantaggi dell’elettronica per avallare le sue tesi.
Il risultato più evidente e scandaloso è nella concezione della conoscenza come dato cumulativo. Il sapere è ridotto a una serie di informazioni, come in un database, conservate e organizzate. La filosofia orientale sembra non condividere questa visione della conoscenza. Addirittura lo zen suggerisce che la vera conoscenza sia soltanto quella ottenuta tramite il vuoto mentale (mushin). Comunque, il buddhismo sposta drasticamente l’attenzione dalla conoscenza alla consapevolezza dell’ignoranza. Credere di conoscere sembra la maniera più ovvia per evitare di conoscere. Perciò il buddhismo pone la "consapevolezza dell’ignoranza" come uno dei sei pilastri della saggezza.
La consapevolezza dell’ignoranza non è una dottrina esclusivamente orientale, ma apparteneva anche alla tradizione degli antichi greci. Il saggio Socrate, nominato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra i greci, affermò di non sapere così da conoscere qualcosa in più rispetto a chi credeva di sapere senza sapere. A parte il contenuto sofistico della frase socratica, il filosofo ateniese era veramente coerente con quanto affermava. Lo zen rifiuta la dottrina scritta insistendo invece su metodi che risveglino la consapevolezza dell’allievo. Socrate applicava un metodo detto maieutica che rifiutava la scrittura preferendo ad essa il dialogo (dialéghesthai). L’Occidente vide nelle stranezze di Socrate un atteggiamento eversivo e politicamente pericoloso, e lo si condannò quindi a morte nel 399 a.C. Questo fu il caso più eclatante (ma non l’unico, si pensi anche a Giordano Bruno nel 1600) dell’intolleranza delle società occidentali nei confronti di chi metteva in dubbio la conoscenza ufficiale. Ciò rivelava anche quanto la conoscenza fosse identificata con il potere. Atteggiamento non dissimile da quello attuale nei confronti dell’informazione e dei mass-media.
Rompere i ceppi che imprigionano la mente umana è il compito che si è assegnato il buddhismo zen. A questo punto la conoscenza si rivela un fardello opprimente che ci impedisce di muoverci. D’altronde Buddha aveva insegnato che è l’attaccamento a generare la sofferenza. Ecco come Deshimaru riassume questi princìpi.

"Spezzare i legami, le abitudini, amare senza desiderio di possesso, agire senza finalità personali, tenere le mani aperte, donare, abbandonare ogni cosa senza paura di perdere: ecco la disciplina dell’adepto zen ! La verità risiede nella semplicità. […] Il maestro Dogen ha detto: Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostra dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia." (7)

Come si può pensare di conoscere se ci si attacca a quattro stracci di idee come a un feticcio? Il buddhismo zen vanifica l’edificio occidentale della sapienza come accumulazione di dati e ci apre una prospettiva molto più ricca. In concordanza con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale (in particolare Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger) si mette in dubbio la concezione cumulativa della conoscenza.
Per il filosofo Nishida Kitaro la conoscenza è un’azione piuttosto che il possesso di dati.

"Secondo l’epistemologia tradizionale, la conoscenza viene costruita secondo il soggetto cognitivo, e all’opposto il dato è pensato come meramente materiale o latente. […] Tuttavia, conoscere è agire e per agire si deve dare un fondamento. Di che cosa si tratta? Deve essere sempre il mondo della realtà che viene colto nell’intuizione attiva." (8)

Insomma, la prospettiva del funzionalismo computazionale è viziata alla base dalla mancanza di un rapporto con la realtà (9). Non è sufficiente riprodurre il mondo nel computer per fingere di conoscerlo. E altrettanto vale per la mente umana che crede di conoscere tramite le rappresentazioni. La difficoltà non è quindi attribuibile alla tecnologia ancora una volta imputata ingiustamente di meriti o colpe che non la riguardano. Piuttosto questa conoscenza non è verace a causa di un errore filosofico, quindi umano. Ma questa consapevolezza può renderci ancora più disponibili e aperti verso il mondo, perché sapere di non sapere è il primo passo per il risveglio dell’intelletto.

Note

1. Turing, Alan, Computing Machinery and Intelligence, in "Mind", vol.59, 1950, pp.433-460.
2. Bechtel, William, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1992, p.194.
3. L’articolo di Turing era ben articolato e sviluppato, prendendo in considerazione anche le possibili obiezioni. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein prese in seria considerazione il quesito di Turing: "Potrebbe pensare una macchina?" Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.
4. Fodor, Jerry, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988; Fodor, Jerry, Il problema del significato nella filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1990.
5. Descartes, René, Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986.
6. Russell, Bertrand, La filosofia di Leibniz, Newton Compton, Roma, 1972.
7. Deshimaru, Taisen, Il vero zen, SE, Milano, 1993, pp.24-25.
8. Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001, p.49.
9. Circa la posizione dell’epistemologia americana si legga anche l’opera di Hilary Putnam, importante esponente di questa corrente filosofica. Cfr. Putnam, Hilary, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.

venerdì 9 luglio 2010

Shiso pensiero giapponese

Shiso, il pensiero giapponese
La filosofia oltre lo scontro di civiltà
di Cristiano Martorella

22 settembre 2002. Affermare che la filosofia giapponese abbia un carattere universale e internazionale può sembrare provocatorio. Ma cosa può svegliare dal torpore dell’intelletto che sembra essersi rassegnato alla banalità del male? La resa incondizionata all’idea dello scontro di civiltà (clash of civilizations) è condivisa da molti, però non da tutti (1). Così la provocazione può dimostrarsi un’autentica rivelazione.
In giapponese si indica con shiso il pensiero, in particolare il pensiero filosofico o concettuale. Il termine è composto da due kanji: il primo (shi) è lo stesso del verbo omou (pensare), il secondo (so) è anch’esso letto omou ed è sinonimo di pensiero, idea. Dunque shiso è il pensiero speculativo o filosofico, mentre il pensiero comune o un pensiero qualunque è indicato dalla parola kangae. Questa distinzione introdotta nella lingua giapponese è stata necessaria a causa della differente concezione del pensiero nell’antica cultura giapponese. Questo diverso contesto linguistico e concettuale implica un’opposizione assente in altre lingue come l’inglese o l’italiano. Il verbo omou, infatti, indica il pensare (to think), ma anche il sentire (to feel), il credere (to believe), lo sperare (to hope) e il volere (to want). L’aspetto puramente concettuale del pensiero doveva essere indicato con un altro termine coniato appositamente, appunto shiso. Ciò ci mette in guardia e ci anticipa la considerazione dei saggi giapponesi nei confronti del pensiero, una stima molto influenzata dal buddhismo e fortemente critica.
Il Buddha Shakyamuni insiste sull’importanza di mantenere il controllo sul pensiero che essendo illusorio per sua natura è potenzialmente nocivo. Questo insegnamento è esposto anche nel Dhammapada (in sanscrito Dharma-pada, Versetti della Legge).

"Si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero domato è portatore di felicità. Custodisca l’uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace. Il pensiero ben guardato porta felicità. Coloro che controllano il pensiero, che viaggia lontano, che cammina solo, incorporeo, che alloggia nel cuore, costoro si liberano dei vincoli del male." (Dhammapada, III, 35-37)

Ma il buddhismo non si limita ad affermare la fallacia del pensiero che necessita quindi di continuo controllo (altrimenti si getterebbe "su ciò che gli piace"). Il buddhismo Mahayana stabilisce che la realtà stessa è pensiero. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il Buddha (Vajracchedika, 5). Le pretese del pensiero speculativo vengono addirittura ridicolizzate. Buddha paragona il filosofo a un ferito che, anziché farsi medicare, vuole sapere chi l’ha colpito, di quale materiale è composta la freccia, e così via. Quest’uomo si perde in questioni irrilevanti, trascurando l’essenziale (Majjhima nikaya, 63).
Il succo dell’insegnamento buddhista è il dharma (legge) che può essere riassunto come il riconoscimento della natura del reale:

1) Impermanenza del pensiero
2) Impermanenza dei fenomeni della realtà
3) Interconnessione e relazione dei fenomeni

Nel suo atteggiamento radicalmente antispeculativo, il buddhismo proclama il carattere "vuoto" del dharma. La dottrina del Buddha non è una teoria, ma un esercizio per liberare l’uomo. Come tale essa è vuota (sunya). Buddha Shakyamuni affrontò la questione con una parabola. Egli paragonò la dottrina buddhista a una zattera, utile per arrivare da qualche parte, ma va poi accantonata una volta raggiunto lo scopo o la terraferma (Majjhima nikaya, 22). Il valore dei princìpi buddhisti è puramente strumentale. Attinta l’illuminazione, essi si rivelano superflui, per non dire paralizzanti. La zattera di Buddha è come la scala del filosofo Ludwig Wittgenstein.

"Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse – oltre esse. Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito. Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo." (Tractatus Logico-Philosophicus, 6.54)

Se Buddha Shakyamuni aveva contestato la realtà assoluta del pensiero, fino a capovolgere la questione e sostenere che la realtà stessa sarebbe soltanto pensiero, il buddhismo zen giapponese ha amplificato questa riflessione rigettando ogni dottrina speculativa e preferendo i metodi pratici. Lo zen insiste sul riconoscimento dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo) e sull’unica realtà che costituisce l’universo ossia il nulla (mu). Questa posizione vanifica ogni tentativo di afferrare con il pensiero qualcosa che si rivela inafferrabile semplicemente perché vuoto. Ma costituisce anche l’abbattimento della barriera che ci separa dal mondo e dagli altri esseri viventi.

"Nella mia tradizione, ogni volta in cui giungo le mani per inchinarmi profondamente davanti a Buddha recito questa breve strofa: Colui che si inchina e porta rispetto, e colui che riceve l’inchino e il rispetto, sono entrambi vuoti. Per questa ragione la comunione è perfetta." (2)

La filosofia giapponese rompe con la tradizione speculativa che considera il pensiero come un oggetto reale e si ricongiunge con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale. Non bisogna supporre che l’atteggiamento della filosofia giapponese nei confronti del pensiero sia isolato, poiché esistono delle fortunate eccezioni. Questo è il caso di Ludwig Wittgenstein che giunse a sostenere perfino che il significato di una parola è il suo uso (ammettendo dunque il carattere vuoto del pensiero).

"I filosofi, che credono che pensando si possa, per così dire, estendere l’esperienza, dovrebbero riflettere che per telefono si può trasmettere un discorso, ma non il morbillo. […] Nei miei pensieri, con le parole, non posso certo carpire una previsione di qualcosa che non conosco (Nihil est in intellectu). Come se potessi arrivare al pensiero, per dir così, dal di dietro, e furtivamente gettare uno sguardo su ciò, che dal davanti mi è impossibile scorgere. Perciò c’è qualcosa di vero nel dire che l’inimmaginibilità è un criterio dell’insensatezza." (3)

Wittgenstein abbandona la concezione del pensiero come di qualcosa superiore alle percezioni e dunque perfetto. Al contrario, il pensiero non ha una natura propria piuttosto è l’apparenza di un comportamento umano (questa dottrina è chiamata "comportamentismo logico" ed è attribuita anche al filosofo Gilbert Ryle) (4). Una formula va intesa come una prassi determinata dall’uso.

"Si può dire: "Il modo in cui la formula viene intesa determina quali passaggi si debbano compiere". Qual è il criterio per stabilire in che modo viene intesa la formula? Forse il modo e la maniera in cui la usiamo costantemente, il modo in cui ci è stato insegnato ad usarla." (5)
Ciò si estende all’intero linguaggio (e dunque al pensiero). Il significato di una parola è il suo uso.
"Ma allora il significato di una parola che comprendo non può convenire al senso della proposizione che comprendo? O il significato di una parola convenire al significato di un’altra? Certo, se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di un tale convenire." (6)

Qual è però il rapporto fra questa filosofia nippo-europea e lo scontro di civiltà evocato all’inizio? Paradossalmente è estremamente semplice. Nell’Ottuplice Sentiero (astanga-marga) esposto da Buddha, si succedevano la retta conoscenza, il retto pensiero, la retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. Se ci liberiamo dai ceppi del pensiero, il cambiamento immediato si ripercuoterà nella nostra vita. Per quanto riguarda lo scontro di civiltà, è sufficiente smettere di pensare l’esistenza e la legittimità della guerra santa. Finché crederemo alla logica della guerra non avremo alternative, poiché lo scontro esisterà fino al giorno in cui lo penseremo. La guerra non è una realtà immutabile, ma la proiezione mentale delle paure umane. Combattiamo perché pensiamo che sia inevitabile. Se gli uomini continueranno a concepire le relazioni sociali soltanto in termini di scontro, ebbene non vi sono altre possibilità. L’errore è nell’attaccamento a questo pensiero.
Così Shibayama Zenkei auspica il successo della filosofia giapponese per il benessere e la pace dell’umanità.

"Oggi il mondo intero, in Oriente e in Occidente, sembra attraversare un periodo di convulsa trasformazione, un’epoca di travaglio in cui cerca di dar vita a una nuova cultura. Le tensioni che colpiscono tante parti del nostro pianeta non possono certo avere un’unica causa, ma una delle principali è certamente il fatto che, mentre sono stati compiuti notevoli progressi nell’uso della moderna conoscenza scientifica, noi esseri umani non ci siamo sviluppati abbastanza sul piano spirituale ed etico per vivere in queste nuove condizioni. È quindi assolutamente necessario dar vita a una nuova civiltà, attraverso una più profonda comprensione dell’essere umano e un più alto livello di spiritualità. […] Lo zen rappresenta una cultura spirituale unica in Oriente; possiede una lunga storia e antiche tradizioni e io credo che abbia fondamentali valori universali in grado di contribuire a creare una nuova civiltà spirituale." (7)

Non ci sono molte alternative. Se non si perverrà, come auspicato da Shibayama, alla costituzione di una filosofia che unisca Oriente e Occidente, non vi sarà più una filosofia. E non ci sarà filosofia perché non ci sarà umanità. La filosofia nippo-europea costituisce il primo tentativo di questa filosofia del futuro.

Note

1. Fu Huntington a coniare l’espressione "scontro di civiltà". Cfr. Huntington, Samuel, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. it. Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997). La sua tesi fu criticata duramente da Fukuyama. Cfr. Fukuyama, Francis, The Great Disruption, Free Press, New York, 1999 (trad. it. La Grande Distruzione, Baldini & Castoldi, Milano).
2. Thich Nhat Hanh, The Heart of Understanding: Commentaries on the Prajna-paramita Heart Sutra, Parallax Press, Berkeley, 1988.
3. Wittgenstein, Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino, 1986, p.58-59.
4. Cfr. Ryle, Gilbert, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p.103.
6. Ibidem, p.74.
7. Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999, p.9.

Bibliografia

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Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch’an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
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venerdì 2 luglio 2010

La violenza del buddhismo

La violenza del buddhismo dalla storia alla dottrina
di Cristiano Martorella

1 luglio 2010. La diceria che descrive il buddhismo come una religione pacifica e dedita alla meditazione è tanto crudele quanto falsa. Purtroppo la storia del buddhismo ci descrive l'esatto opposto, e in Giappone troviamo gli esempi più eclatanti della trasgressione del principio di non-violenza di quei maestri buddhisti tanto venerati.
Chi non crede ai testi degli storici, giudicati frettolosamente come discutibili e quindi ignorati, può essere facilmente costretto alla resa ricorrendo alla semantica della lingua. Infatti i dizionari della lingua giapponese contengono una parola che emette una sentenza definitiva, chiara e irrevocabile. Questa parola è sohei. La parola sohei è composta da due kanji (caratteri cinesi) che significano monaco buddhista (so) e soldato (hei). I sohei erano monaci guerrieri armati che combattevano per gli interessi del proprio monastero o setta religiosa. Al contrario di quanto si possa pensare, i sohei non avevano soltanto funzione difensiva, ma partecipavano attivamente alle guerre. L'influenza politica dei monaci era così forte che il condottiero Nobunaga Oda decise di sterminarli affinché non ostacolassero la sua ascesa al potere. Il 29 settembre 1571, il tempio Enryakuji, principale monastero della setta Tendai, fu distrutto. I monaci e la popolazione civile furono uccisi senza pietà. Nel 1573 lo shogun Yoshiaki Ashikaga si alleò con i monaci guerrieri che combatterono contro il suo rivale. I monaci guerrieri ebbero sempre una parte importante nella storia militare del Giappone, fino a quando fu imposta la non belligeranza all'intero paese unificato e pacificato dallo shogunato Tokugawa (1603-1867).
Ciò che più preoccupa del fenomeno del buddhismo militante guerriero, è la disinvoltura con cui i maestri buddhisti alimentarono il fanatismo e l'istigazione alla violenza. Un esempio particolare è fornito dal rapporto fra il samurai Shijo Kingo e il monaco Nichiren. Conoscendo bene il carattere fiero e battagliero di Shijo Kingo, Nichiren ne sfruttò la psicologia a servizio della sua causa: la creazione di una setta buddhista che avrebbe dovuto avere l'egemonia in Giappone, eppoi nell'intero mondo. Invece di indurlo ad abbandonare le armi e cambiare stile di vita, Nichiren lo incoraggiò sempre nelle sue battaglie arrivando addirittura a dire che era preferibile "vivere un solo giorno con onore piuttosto che morire a centoventi anni in disgrazia". Un chiaro invito a morire per la sua causa.
Shijo Kingo sopravvisse, ma tanti altri seguaci di Nichiren morirono combattendo per lui, e le testimonianze sono fornite dalle lettere disperate delle vedove inviate al monaco con la richiesta di un aiuto. L'idea che Shijo Kingo fosse un violento irascibile non è una malevole critica dei suoi detrattori, ma un fatto storico riconosciuto anche dai suoi ammiratori (1).
Gli episodi di violenze e aggressioni fra le sette buddhiste rivali furono tanto diffusi che le autorità decisero di prendere seri provvedimenti. Nel 1279 vi fu una repressione dei seguaci di Nichiren, un evento noto come Atsuhara honan (crisi di Atsuhara). In quella occasione furono arrestate ben 20 persone, e 3 furono condannate a morte e giustiziate.
Dunque sono innegabili le violenze compiute in nome del buddhismo. La questione non è più chiedersi quante furono le vittime, aspetto storicamente inconfutabile, ma perché ciò avvenne. La risposta è semplice. La dottrina di Nichiren rifiutava gli insegnamenti provvisori (shakumon) di Buddha, ritenuti meno importanti e degni di rispetto dell'insegnamento fondamentale (honmon). Purtroppo fra gli insegnamenti provvisori (shakumon) vi è anche il principio di non-violenza. Nichiren, al contrario, fondava la sua religione unicamente nella fede nel daimoku. Il daimoku è un mantra, una formula recitata ripetutamente composta dal titolo del Sutra del Loto e preceduta dalla parola namu che significa lode, onore (dal sanscrito namas). Daimoku, infatti, significa letteralmente titolo, e indica il titolo del Sutra del Loto, in giapponese Myoho renge kyo. L'invenzione della recitazione del daimoku non è opera originale di Nichiren, ma era già stata formulata da Kukai (2) della setta Shingon.
Nichiren aveva studiato in gioventù, quando era conosciuto col nome di Zeshobo Rencho (3), presso la scuola Shingon, e conosceva quindi molto bene le pratiche esoteriche. Anche se nei suoi scritti troviamo ferme critiche al buddhismo esoterico, e soprattutto invettive che ridicolizzavano le magie delle sette Shingon e Kegon (4), Nichiren non ebbe ritegno e scrupolo a farne comunque uso. Arrivò addirittura a sostenere il sesso tantrico affermando che recitando il daimoku durante l'amplesso sessuale si sarebbe raggiunta immediatamente l'illuminazione (5). La dottrina di Nichiren si distaccò gradualmente da ogni tipo di insegnamento buddhista, eliminando ogni questione di carattere dottrinale, e basandosi unicamente sulla fede e i benefici ottenuti dalla pratica religiosa. Il daimoku così divenne una pedissequa imitazione del nenbutsu, il mantra recitato dagli avversari della setta Jodo.
In realtà queste forme del buddhismo giapponese, che si combattevano molto ferocemente fra di loro, erano in effetti simili. Nichiren, Honen e Shinran predicavano gli stessi principi: uso esasperato del mantra, abbandono fideistico, esclusivismo settario. La setta Jodo, ad esempio, ha sempre sostenuto che i peggiori peccatori avrebbero avuto accesso alla Terra Pura semplicemente recitando il nenbutsu. Ciò è stato spesso interpretato come un'indipendenza della condotta della persona dalla grazia (tariki) del Buddha Amida. Secondo Shinran, il peccatore può essere salvato soltanto tramite la fede che è un dono di Amida. Più un uomo è sprovveduto spiritualmente, più ha la possibilità di essere salvato poiché essendo incapace del minimo sforzo personale, oppone anche meno resistenza alla forza salvatrice di Amida. Questo è il senso del paradosso di Shinran che diceva: "Anche i buoni andranno in paradiso, tanto più i cattivi!"
Il problema fondamentale del buddhismo giapponese in queste forme e accezioni, è di avere una spiccata tendenza alla amoralità. Un tratto caratteristico della religione autoctona giapponese, lo shintoismo, è di essere una religione dell'estetica, quasi estranea e disinteressata alla moralità. Spesso il bene si identifica con il piacere e la bellezza. Così avviene anche per il buddhismo giapponese quando concentra la pratica sull'ottenimento di benefici materiali. Infatti il buddhismo giapponese si mischiò e fuse in maniera irreversibile con le credenze shintoiste, tanto da rimanerne influenzato. Questo sincretismo è detto shinbutsu konko, oppure shinbutsu shugo, ma viene anche indicato col nome di ryobu shinto.
Pensatori come Nichiren, Honen e Shinran non si accorsero nemmeno di essere determinati dalle tendenze culturali della loro epoca, anzi dissero al contrario di distaccarsene e di essere originali. Tutto ciò non sarebbe un pericolo, anzi avrebbe aspetti interessanti e singolari se non fosse viziato da un abbandono fideistico che corrisponde all'eliminazione di ogni voce critica. L'idea di eliminare il dualismo bene-male (zen aku funi) e di contestare la rigidità dottrinale, costituisce uno sviluppo fervido e fecondo della filosofia giapponese ereditato appunto dal buddhismo e dallo shintoismo. Ma ignorare gli effetti devastanti che il fanatismo religioso può avere, come si è visto fin qui, rappresenta il pericolo più grave per la società, sia essa occidentale oppure orientale.
Chi crede nel buddhismo deve anche fermamente rifiutare l'obbedienza cieca a una fede che invece di illuminazione e saggezza produce ottusità e chiusura. Quando si chiede di "sostituire la fede alla saggezza" si sostiene implicitamente di rinunciare all'illuminazione e alla buddhità, ciò che un buddhista autentico non potrà mai accettare.

Note

1. Daisaku Ikeda parla di "tendenza alla collera". Cfr. Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005, p.188.
2. Cfr. Sutra del Loto, traduzione di Luciana Meazza, introduzione di Francesco Sferra, Rizzoli, Milano, 2006, p.22.
3. Nichiren, il cui vero nome alla nascita era Zennichimaro, fu avviato alla vita religiosa in giovane età, e nel 1237 fu ordinato monaco al Kiyosumidera col nome di Zeshobo Rencho. Si recò quindi all'Enryakuji per approfondire lo studio del pensiero Tendai, e poi a Koya, dove studiò le teorie Shingon.
4. La setta Shingon, fondata dal monaco Kukai, si ispira al buddhismo Vajrayana ed è di indirizzo tantrico, facendo ampio uso di mandala e mantra, e in particolare di rituali magici. La setta Kegon, detta scuola dell'ornamento floreale, è una scuola mahayanica che si fonda sull'insegnamento del sutra Avatamsaka. Il tema centrale della setta Kegon è l'unità e l'interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi.
5. Il gosho in cui si trova questa affermazione è intitolato I desideri terreni sono illuminazione. Cfr. Nichiren Daishonin, Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol.4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, p.145.

Bibliografia

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