domenica 6 giugno 2010

La verità e il luogo

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.
di Cristiano Martorella

Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.
La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).
Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.
Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.
Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo), ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.

Bibliografia

Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.
Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.



Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.

Wittgenstein e il buddhismo

Articolo sulla filosofia di Wittgenstein e il buddhismo pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".
Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.

Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein
di Cristiano Martorella

Wittgenstein e il pensiero orientale

Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del Buddhismo Zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità. Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava completamente le opere e gli autori orientali. Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d’ingegneria di Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale. Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano impegnato i saggi d’India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio. Buddha aveva indicato agli orientali l’origine della sofferenza. Un cattivo o eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi problemi. Egli era fortemente insoddisfatto dell’incapacità della filosofia occidentale nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli affermava: "(...) il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi" (1).

Filosofia del linguaggio

Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi, dunque la sua indagine si sposta sull’analisi di questi pseudo-problemi. Lo scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare gli pseudo-problemi.
Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell’ambiguità e fallacia del linguaggio l’origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre. Secondo Nagarjuna, così come insegna il Buddhismo, ogni cosa è in relazione con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della parola affermando che il senso è l'uso.

Filosofia come terapia

Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo sul linguaggio. La filosofia deve fornire una "grammatica" perspicua del linguaggio (2). Essa non è una dottrina ma una attività.
La forma più nobile del Buddhismo, scevra di superstizioni e credenze metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il Buddhismo, in particolare lo Zen, necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto l’atto di fede (3). Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un impegno che implica la totale partecipazione dell’individuo a caratterizzare tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti koan, il Buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli errori che controllano la sua mente.

Koan di Wittgenstein

Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono interrogati attraverso l’uso di un koan. Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.

"Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
"La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
"Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
"Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
"Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
"Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?" (Della certezza, Par.456)

Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente.

La prospettiva dei filosofi giapponesi

Affermare l’esistenza di una affinità fra lo Zen e la filosofia di Wittgenstein sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse. Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello Zen. La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume Daisaburo (4). Nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del Buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l’ostracismo della cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici.
Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del Buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del Buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore (5). Wittgenstein aveva visto in frasi come "io provo dolore" ed "egli prova dolore", una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale ("Io provo dolore") è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo ("Egli prova dolore"). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal punto di vista grammaticale.
Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà.
Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di "seguire una regola" (6). Hashizume riconosce nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. L’elemento concettuale, la spiegazione e la teoria, è del tutto assente.
Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime (7). Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello Zen, ma anche a ciò che Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano l’espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l’interruzione dell’uso della logica vero-funzionale e della dialettica discorsiva.
Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare certi aspetti del Buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo Hashizume, si può trovare il principio di "seguire una regola" nella condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la "regola". Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per l’appunto "seguendo la regola". Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva tali aspetti: "Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa" (8). Per il Buddhismo, l’esempio supremo è il Buddha.
Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere "il seguire una regola" con "l’interpretare una regola". Una minaccia che colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che Wittgenstein avversava con la sua nozione di "significato come uso". Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John Austin (9), e permise di far tornare concreto il linguaggio.

Conclusioni

Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo modo di vedere, il pensiero non sarebbe un’immagine mentale del mondo, qualcosa di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario. Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in relazione con il mondo. L’errore umano è confondere il pensiero con il mondo. L’errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra cosa.


Note

1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989 ("Nuova Universale Einaudi"/196), p. 5.
2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Filosofia, Donzelli, Roma, 1996, p. 27.
3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene la vita completamente libera (...)". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996, p. 69.
4. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo 1985.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, pp.119-138.
6. Ibidem, pp.108-116.
7. Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 210-217.
8. Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, p. 26.
9. Austin, John, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.

Bibliografia

AA.VV., Wittgenstein, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.
Andronico, Marilena, Marconi, Diego, Penco, Carlo, Capire Wittgenstein, Marietti, Genova, 1988.
Canfield, John, The Philosophy of Wittgenstein, Vol.15, "Elective affinities, Wittgenstein and Zen", Garland Publishing, Inc., 1986, pp.383-408.
Gargani, Aldo, Introduzione a Wittgenstein. Laterza, Bari, 1973.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del Corso di Filosofia del Linguaggio, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999.
McGuinness, Brian, Wittgenstein:A Life. Duckworth, London, 1988.
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Perissinotto, Luigi, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano, 1997.
Wienpahl, Paul, Zen and Work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol.12, n.2, 1958, pp.67-72.
Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989.
Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.
Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.
Wittgenstein, Ludwig, Zettel, Einaudi, Torino, 1986.
Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978.
Wittgenstein, Ludwig, Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino, 1976.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino, 1982.
Wittgenstein, Ludwig, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1971.
Wittgenstein, Ludwig, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980.




Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".
Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.

Tetsugaku, la filosofia giapponese

Tetsugaku, la filosofia giapponese
di Cristiano Martorella

11 febbraio 2002. Quando gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. I sapienti dell’arcipelago nipponico avevano curato la loro formazione intellettuale con lo studio del sanscrito e del cinese, e l’approfondimento dei classici confuciani e buddhisti. E i risultati non erano mancati. Il monaco buddhista Kukai (774-835), conosciuto con il titolo di Kobo Daishi, inventò i kana tuttora utilizzati nel giapponese moderno. Egli li ottenne attraverso lo studio della scrittura sanscrita (devanagari) e una semplificazione dei kanji di origine cinese. Il sistema sillabico dei caratteri (kana) fu una conquista intellettuale notevole e permise uno sviluppo della scrittura. I kana, a differenza dei kanji, avevano un valore esclusivamente fonetico e permettevano anche la trascrizione di suoni (giseigo) e parole straniere (gairaigo), svolgendo tante funzioni linguistiche altrimenti impossibili.
Dunque l’arrivo della filosofia e scienza europea alla metà del XVI secolo trovò un ambiente intellettualmente florido. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale.
I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone (1). A differenza di altre nazioni europee (si pensi alla Spagna), l’Olanda non aveva mire espansionistiche feroci, ma applicava una politica che favoriva gli scambi commerciali e culturali. L’Olanda era anche divenuta il rifugio degli intellettuali nel XVII secolo grazie alle garanzie civili, alla tolleranza religiosa e alla libertà di pensiero consentita. Ciò spiega i rapporti privilegiati fra Olanda e Giappone, altrimenti impossibili (2).
Intanto si compilavano numerosi testi sulla sapienza dell’Occidente. Arai Hakuseki (1657-1725), per ordine dello shogun Ietsugu, interrogò il missionario italiano Giovanni Battista Sidotti e ne ricavò un libro intitolato Seiyo kibun (Rapporto sull’Occidente). Il testo raccoglie e tratta la storia europea, la geografia, la filosofia e religione. Arai Hakuseki riconosce la superiorità della scienza occidentale nei settori pratici (geografia, astronomia, chimica, etc.), ma rimane scettico ed esprime disprezzo nei confronti del cristianesimo ritenuto contraddittorio e superficiale.
Yamagata Banto (1748-1821) scrisse Yume no shiro (Al posto dei sogni) in cui affermava la sua concezione materialista del mondo a favore della scienza e contro le superstizioni.

"Gli occidentali osservano e fanno rilevamenti durante i loro viaggi tra un paese e l’altro. […] Non esistono teorie fallaci come quelle indiane, cinesi e del nostro paese. Bisogna credere alle loro teorie. […] I cinesi con disattenzione fanno affermazioni piene di errori, senza prima controllarle. E indiani e giapponesi le acquisiscono così come sono." (Yamagata Banto, Yume no shiro 1,25 e 12, 23)

Yamagata Banto espone anche importanti acquisizioni scientifiche dell’epoca: la teoria eliocentrica, la forma sferica e la rotazione della Terra, il movimento di marea, la teoria gravitazionale di Newton, la dinamica e l’elettrologia.
Nel 1774 Motoki Yoshinaga (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Shizuki Tadao (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese.
Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Fra gli studiosi di rangaku spiccarono Aoki Kon’yo, Arai Hakuseki, Asada Goryu, Hiraga Gennai, Maeno Ryotaku, Shiba Kokan, Shizuka Tadao, Sugita Genpaku, Takano Choei, Watanabe Kazan e Yamawaki Toyo.
Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale.
L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Takano Choei (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897) (3).
Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Al contrario di quanto affermato dagli studiosi italiani come Grazia Marchianò, Gino Piovesana e Carlo Saviani, il termine tetsugaku non è affatto la traduzione letterale di "amore del sapere"(4). Non vi è infatti presenza della parola amore nei kanji di tetsugaku. I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase "dori ni akaruku" (diventare chiaro tramite la ragione). A differenza degli insegnamenti confuciani (basati sul rispetto delle regole tramandate dagli avi) e della dottrina buddhista (antiteoretica e contemplativa), la filosofia nippo-europea (tetsugaku) utilizzava un metodo speculativo. L’applicazione del metodo speculativo (o dialettico) inventato dai greci verso il V secolo a.C., nell’ambito delle conoscenze già acquisite dalla filosofia orientale, diede vita a sistemi filosofici originalissimi compatibili con la scienza occidentale (5).
La filosofia nippo-europea tuttavia è ampiamente ignorata ancora oggi. Anche perché si rivela concorrenziale e alternativa alle dottrine epistemologiche d’origine americana attualmente dominanti. Ciò significa un ritardo storico nei confronti di un pensiero transnazionale che dovrebbe evitare le contrapposizioni fra "orientale" e "occidentale". Una perdita intellettuale che è anche una delle cause del clash of civilizations (scontro di civiltà) della nostra epoca.

Note

1. Per la rangaku e l’incontro del Giappone con la scienza occidentale si consulti il completo ed equilibrato testo di Andrea Tenneriello. Cfr. Tenneriello, Andrea, La legislazione per la scienza e la tecnologia nel Giappone moderno, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.
2. Cfr. Keene, Donald, The Japanese Discovery of Europe 1720-1830. Stanford University Press, Stanford, 1969.
3. Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
4. Cfr. Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il melangolo, Genova, 1998, p.23.
5. Si consideri, ad esempio, il successo della fenomenologia husserliana in Giappone. Cfr. Ogawa, Tadashi, The Kyoto School of Philosophy and Phenomenology, in Analecta Husserliana, vol.8, 1979, pp.207-221.

Bibliografia

Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. I miti dell’antichità, Graphos, Genova, 1991.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L’incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Marchianò, Grazia (a cura di), La scuola di Kyoto. Kyoto-ha, Rubbettino, Soveria Mannelli,1996.
Miki, Kiyoshi, Tetsugaku nyumon, Iwanami, Tokyo,1940.
Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.
Piovesana, Gino, Filosofia giapponese contemporanea, Pàtron, Bologna, 1968.
Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma, Tokyo, 1976.
Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1963.

Abe Masao

Abe Masao, il filosofo della diversità
La logica del sokuhi come dialettica del cambiamento
di Cristiano Martorella

20 maggio 2008. In un'epoca che vede i pensatori occidentali arroccarsi sulla posizione conformista della condanna del relativismo culturale, considerato come la causa di tutti i mali della società contemporanea, la filosofia giapponese si presenta come una sfida audace. Fra gli autori che sostengono questa sfida, bisogna ricordare anche Abe Masao (1915-2006).
Abe Masao è stato professore emerito dell'Università di Nara, ed è considerato unanimemente come uno degli ultimi membri della cosiddetta Scuola di Kyoto, la più rappresentativa e originale scuola di pensiero del mondo accademico giapponese. Egli fu un bravo commentatore e divulgatore del lavoro di Nishida Kitaro. Inoltre recuperò i grandi classici buddhisti, come gli studi di Dogen, propendendo per una attualizzazione del buddhismo nell'ambito filosofico contemporaneo. Il testo più significativo e importante che scrisse fu Zen and Western Thought (1), un caposaldo della filosofia comparativa. L'opera di Abe Masao è il tentativo di mostrare i limiti della logica e del linguaggio attraverso la logica e il linguaggio stessi. Un paradosso che serve a delucidare il carattere illusorio della conoscenza. Tutto è illusione, compresa l'illusione di conoscere il carattere illusorio della realtà. Il nucleo centrale di questo pensiero è nella logica del sokuhi, una particolare logica giapponese basata sul principio del "è eppure non è". Secondo Suzuki Daisetsu, si può affermare dicendo che "a è a perché a non è a", in palese opposizione alla logica aristotelica che dice che "a è uguale a se stesso" (principio di identità). La formalizzazione (2) di tutto ciò nella logica simbolica è molto semplice:

a = a (principio di identità)
~ ( a ^ ~ a ) (principio di non-contraddizione)
a = a → a = ~ a (principio del sokuhi)

La logica occidentale non ha accettato pedissequamente i princìpi aristotelici, anzi li ha spesso contestati avvicinandosi piuttosto alle considerazioni dei maestri orientali (sostenitori di una logica più concreta e meno astratta). D'altronde per mantenere un'unità del pensiero occidentale, si sono nascoste le tante obiezioni dei pensatori più originali (3). David Hume, nel Trattato sulla natura umana (4), critica il principio di identità dicendo che non si può affermare che un oggetto sia identico a se stesso se non limitiamo il periodo di tempo stabilito. Inoltre Hume critica la possibilità di intendere l'identità come una relazione. Infatti dovrebbe essere una relazione di tipo molto particolare, ossia una relazione con se stesso. In questo modo non si distingue la relazione dal mero attributo di esistere. Ludwig Wittgenstein (5) fu altrettanto intransigente. Egli affermò che "dire di due cose che esse sono identiche è un non senso, e dire di una che essa è identica a se stessa non dice nulla" (Tractatus logico-philosophicus, par. 5.5303).
La filosofia giapponese non è però interessata alla confutazione del principio di identità. Essa sostiene qualcosa in più, qualcosa che è diverso. Il principio del sokuhi dichiara che l'identità esiste solo nella negazione. La parola sokuhi è composta da due kanji, il primo significa equivalenza, il secondo negazione. Secondo Abe Masao, le cose sono uguali perché sono diverse, e ciò accade perché esistono nel cambiamento. Tutto ciò che esiste lo è in quanto tale poiché diviene. Quindi esso "è eppure non è". La filosofia occidentale ha ignorato un aspetto dell'esistenza, ritenendo che l'identità non sia la differenza. Il sistema di pensiero della tradizione cristiano-giudaica è ostile alla diversità. La polarità di bene e male non è conciliabile, ovvero non c'è riconciliazione fra Dio e Satana. Il buddhismo non concepisce un'opposizione e un dualismo così assoluto ed esclusivo. Al contrario, sostiene il relativismo. Tutte le creature sono partecipi della natura di Buddha, e nessuno vi è escluso.
Abe Masao ricerca nel buddhismo le espressioni di ciò che indica la possibilità di attingere la non dualità (funi), e permetta quindi di superare la distinzione tra l'identità e la differenza. In termini religiosi, significa comprendere la propria natura di Buddha, capire che non c'è distinzione tra il soggetto e Buddha. Chi vede che Buddha è in ogni cosa è Buddha, e Buddha è in lui perché è in ogni cosa. Questo atto è un'esperienza che svela il carattere autentico della realtà, ovvero che essa è una cosa unica. Non esiste un oggetto separato dal mondo, bensì ciascun oggetto è compartecipe del mondo, esso stesso è il mondo. Per questo motivo l'identità da sola è un non senso. Gli oggetti esistono soltanto in virtù della relazione con gli altri oggetti. Esiste perché da solo non potrebbe esistere, dunque è altro da sé, è diverso.
Per quale motivo l'uomo comune non è capace di riconoscere la realtà così come abbiamo appena descritto? Dipende dai condizionamenti sociali che imbrigliano la mente umana e la rendono succube di una visione isolante, limitativa e inautentica. L'egocentrismo impedisce di vedere liberamente le cose così come sono. L'attaccamento all'ego tende a rafforzare l'idea di un'identità sempre uguale a se stessa. Eppure l'ego è una costruzione artificiale determinata dai ruoli sociali interpretati. La personalità, l'io, è un aggregato di corpo, sensazioni, pensieri, volontà e coscienza che presi isolatamente sono vuoti di contenuto. La consapevolezza del carattere illusorio dell'io è ciò che ci libera dai suoi condizionamenti, sia interni sia esterni. Tutto ciò che ha forma è illusione. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il tutto che è il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. L'identità è diversità, e la diversità è identità. In conclusione, soltanto attraverso questo tipo di relativismo (6) si può dissolvere l'inganno dei sensi e della mente. Rifiutare la diversità comporta inevitabilmente la crisi che conduce al conflitto.

Note

1. Cfr. Abe, Masao, Zen and Western Thought, University of Hawaii Press, Honolulu, 1985.
2. Per la formalizzazione si sono seguite le regole dei manuali adottati nei corsi di logica. Cfr. Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, Pantograf, Genova, 1993; Agazzi, Evandro, La logica simbolica, La Scuola, Brescia, 1990. Per ulteriori approfondimenti: Quine, Willard Van Orman, Manuale di logica, Feltrinelli, Milano, 1968; Strawson, Peter Federick, Introduzione alla teoria logica. Einaudi, Torino, 1975; Carnap, Rudolf, Sintassi logica del linguaggio, Silva, Milano, 1961.
3. L'unità del pensiero occidentale corrisponde più spesso a un'esigenza politica. Sulle manipolazioni politiche della scienza si legga Paul Feyerabend. Cfr. Feyerabend, Paul, Ambiguità e armonia, Laterza, Roma-Bari, 1996; Feyerabend, Paul, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari, 1993.
4. Cfr. Hume, David, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1978.
5. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1964. Per la convergenza del pensiero di Wittgenstein con lo zen si leggano i seguenti testi: Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003; Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in Wittgenstein, "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.
6. Leonardo Vittorio Arena ha sottolineato l'importanza del lavoro di Abe Masao, sostenendo anche l'attualità della filosofia giapponese che enfatizza il relativismo culturale. Il Giappone ha dimostrato con la propria civiltà che è possibile qualcos'altro. Il capitolo su Abe Masao è in Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008, pp. 340-346 .

Bibliografia

Abe, Masao, Zen and Western Thought, University of Hawaii Press, Honolulu, 1985.
Abe, Masao, A Study of Dogen. His Philosophy and Religion, State University of New York Press, Albany (NY), 1991.
Abe, Masao, The Logic of Absolute Nothingness, as Expounded by Nishida Kitaro, in "The Eastern Buddhist", n.2, XXVIII, 1995.
Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Hume, David, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1978.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", anno II, n. 4, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nakagawa, Hisayasu, Introduzione alla cultura giapponese. Saggio di antropologia reciproca, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L'Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L'io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishida, Kitaro, Uno studio sul bene, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Ueda, Shizuteru, Zen e filosofia, L'Epos, Palermo, 2006.
Vianello, Giancarlo, Messaggeri del nulla. La scuola di Kyoto in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006.
Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1964.

Da cuore a cuore

Articolo pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.12-13.

Filosofare da cuore a cuore
di Cristiano Martorella

La parola zen deriva dal cinese ch’an, a sua volta adattamento dal sanscrito dhyana e del pali jhana. Con questo termine si indica semplicemente la meditazione, ma ha assunto anche il significato di un tipo di buddhismo giapponese dal nome della setta omonima. La leggenda narra che il primo patriarca dello zen fu Kashyapa. Durante un’assemblea Buddha rimase misteriosamente silenzioso guardando semplicemente un fiore che teneva in mano. Poi rivolse lo sguardo ai discepoli. Nessuno lo comprese tranne Kashyapa che gli sorrise. Buddha ricambiò il sorriso e questa fu l’illuminazione del suo allievo. La leggenda indica chiaramente le caratteristiche del buddhismo zen che si concentra sul fenomeno dell’esperienza dell’illuminazione. Lo strumento per raggiungere l’illuminazione è la meditazione. La meditazione è, secondo Taisen Deshimaru, la condizione originale del corpo e della mente liberati dai condizionamenti. Quanto ciò sia facile da dire e difficile da applicare è ben noto a chi pratica lo zen che è sicuramente una scuola buddhista dalla disciplina severa e austera, e tuttavia affascinante per gli occidentali. Motivo di tanto interesse è dovuto anche all’influenza che lo zen ha avuto sulle arti giapponesi. Dal teatro (no) alla calligrafia (shodo), dall’arte della disposizione dei fiori (ikebana) alla cerimonia del tè (chanoyu), dal tiro con l’arco (kyudo) alla scherma (kendo), ogni arte giapponese sembra permeata dai princìpi dello zen. La ragione è da ritrovare nella flessibilità amorfa della pratica zen. In effetti non è zen ciò che si fa, ma come si fa. A questo punto è necessario un passo indietro per approfondire alcuni aspetti del buddhismo e comprendere cosa si intenda per pratica zen.
Il dilemma della condizione umana è nell’essere afflitti da tormenti e tribolazioni generati da una mente incapace di restare tranquilla. La soluzione non è nell’attitudine del pensiero, nelle idee, che più spesso sono la causa del dilemma, e nemmeno in una condizione fisica che ignora il malessere mentale. C’è bisogno di una pratica che sappia risolvere il conflitto fra la mente e la realtà, il pensiero e il corpo, l’individuo e l’ambiente, la vita e la morte, insomma la soluzione di ogni dualismo. Infine ecco l’illuminazione immediata secondo l’insegnamento dello zen. L’illuminazione è l’esperienza della percezione dell’identità delle contraddizioni. Il dualismo è soltanto un’idea della mente, la realtà è l’unità dei fenomeni dell’universo. Chi riconosce il carattere illusorio del conflitto si emancipa dai ceppi che impediscono alla mente di vedere il carattere autentico del quotidiano. La mente dell’illuminazione (bodaishin) è la mente che vive in accordo con la realtà del sé e delle cose, libera da attaccamenti e condizionamenti. Il metodo per sviluppare la mente dell’illuminazione è la via di Buddha (butsudo) senza spirito di profitto (mushotoku). Concretamente ciò si può realizzare in diversi modi, e infatti sono diverse le tecniche usate dalle scuole zen. La setta Rinzai adotta lo zen della meditazione sulle parole (kanna zen) attraverso i koan, paradossi logici, mentre la setta Soto applica lo zen dell’illuminazione silenziosa (mokusho zen) tramite lo zazen, il restare seduti. Lo zazen è una pratica enigmatica nella sua semplicità e banalità, la quale consiste nello stare seduti in quiete senza tensione e senza torpore. Questa semplice condizione, se guidata dalla consapevolezza del corretto insegnamento buddhista, porta all’unità inscindibile di corpo e mente (shinjin ichinyo) e alla liberazione della mente che non si attacca e fissa ai pensieri, ma accetta il cambiamento del reale. Lo zen è dunque la realizzazione della mente originale, mentre il resto è vaneggiamento mondano e illusorio.
Caratteristica dello zen è l’importanza attribuita al metodo dell’insegnamento detto "da cuore a cuore" (ishindenshin) che è simboleggiato dall’illuminazione di Kashyapa. Il vero insegnamento di Buddha non è una conoscenza concettuale trasmissibile tramite le parole, piuttosto è l’intuizione del reale aspetto di tutti i fenomeni e la visione (kensho) dell’autentico sé. Questa intuizione non può avvenire e nemmeno essere trasmessa attraverso i pensieri, bensì può essere indotta soltanto con l’apertura della mente alla ricezione e al raggiungimento dell’illuminazione immediata. D’altronde la stessa definizione di illuminazione immediata rimanda etimologicamente a qualcosa che non è mediato. Da un punto di vista filosofico occidentale ciò rappresenterebbe un ostacolo rilevante. Trasmettere un insegnamento senza l’ausilio del pensiero è inconcepibile. Tuttavia per il buddhismo zen ogni pensiero è illusorio perché è di parte, relativo, particolare, finito, insomma non conosce l’assoluto. Meglio allora liberarsi di questo pensiero restando seduti in silenzio. Drastico ed efficace. Così è lo zen, austero e severo, irremovibile dalla necessità di estirpare l’errore dalla mente umana. Così come Bodhidharma che rimase seduto in meditazione per nove anni rivolto al muro.
Il carattere non speculativo dello zen spiega la sua penetrazione nelle arti giapponesi. Lo zen è pratica continua e applicazione costante in ogni aspetto della vita. L’arte ha inteso sommamente questo interesse per la vita svincolata da condizionamenti e costrizioni, e perciò l’ha esaltato in massimo grado. Non è nemmeno trascurabile il fatto storico ossia che i maestri dello zen più importanti siano stati giapponesi come Dogen, Keizan, Ikkyu, Hakuin, Bankei e Deshimaru. Per questi motivi si può affermare che il tratto caratteristico della cultura giapponese è tipicamente buddhista e zen, a differenza della Cina profondamente e orgogliosamente confuciana. Il Giappone è perciò il paese attualmente più vicino all’insegnamento dello zen.
In conclusione, a che serve allora lo zen? A niente. Lo scopo dello zen è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio. Sconcertante, eppure lo zen è semplicemente questo.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano, 1992.
Deshimaru, Taisen, Autobiografia di un monaco zen, Mondadori, Milano, 1995.
Guareschi, Fausto Taiten (a cura di), Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Mondadori, Milano, 1981.
Lamparelli, Carlo, Il libro delle 399 meditazioni zen, Mondadori, Milano,
La Rosa, Giorgio Dizionario delle religioni orientali, Garzanti, Milano, 1993.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 1992.
Suzuki, Shunryu, Mente zen, mente di principiante, Astrolabio, Roma, 1977.
Watts, Alan, Beat zen e altri saggi, Arcana, Milano, 1978.

Mu, il nulla indicibile

Mu, il nulla indicibile
di Cristiano Martorella

16 maggio 2002. Fra i concetti filosofici esposti dal buddhismo zen, riveste una particolare importanza la singolare concezione del nulla (mu). Molti studiosi hanno evidenziato la profonda differenza fra la concezione orientale del nulla e la definizione occidentale assunta nel mondo moderno. In generale si intende il nulla come mancanza, assenza, o negazione. Queste definizioni non corrispondono al nulla del buddhismo zen.Hisamatsu Shin'ichi ha dedicato un testo, intitolato La pienezza del nulla, all'analisi delle differenze fra la concezione del nulla propria dello zen e le altre. Hisamatsu distingue alcune interpretazioni del nulla che non corrispondono affatto al nulla dello zen.

1) Nulla come negazione della presenza.
2) Nulla come negazione del giudizio.
3) Nulla come idea.
4) Nulla come prodotto dell'immaginazione.
5) Nulla come assenza di coscienza.

Il nulla come negazione della presenza nega l'esistenza di un ente in un luogo o in assoluto. Questa interpretazione del nulla, molto diffusa, si poggia sulla concezione dell'essere come presenza. Ma alcuni filosofi (fra cui Martin Heidegger) hanno contestato questa concezione ritenendola equivoca e limitativa.In Essere e tempo, Martin Heidegger rintraccia nella filosofia di Cartesio la concezione dell'essere come res extensa semplicemente presente. Come suo contrario viene così definito il nulla, ossia la negazione della presenza. Tuttavia questa definizione risulta insufficiente e fallace. L'essere non può venir inteso soltanto tramite una sua determinazione: la presenza. Così il nulla non può intendersi come l'assenza di una presenza. Si tratta della consueta modalità del pensiero occidentale caratterizzata dal dualismo e dal ragionamento tramite negazioni. Si definisce qualcosa come opposizione e negazione.Il buddhismo ricorre invece a una grande libertà di associazione poiché ritiene l'essere come una natura immanente. Il pensiero quotidiano, al contrario, rischia di limitare la comprensione del mondo escludendo le infinite possibilità dell'esistenza.Il nulla come giudizio è semplicemente la negazione di un predicato. Ad esempio, "il serpente non è un mammifero". Si tratta però di un formalismo. Ciò che viene negato è l'asserzione intorno a qualcosa. Infine conosciamo pochissimo sulla vera natura delle cose.Il nulla come idea è un'altra astrazione. Quando diciamo che "il nulla non è l'essere" abbiamo soltanto stabilito un'opposizione.Ci accorgiamo così di conoscere ben poco su concetti che usiamo abitualmente come il nulla e l'essere. Il buddhismo zen riconosce questa nostra ignoranza e l'attribuisce al nostro modo consueto di ragionare. Perciò ritiene essenziale abbandonare gli schemi concettuali prestabiliti. Per far ciò preferisce l'applicazione di metodi pratici come la meditazione, ma non esclude la speculazione utilizzando i paradossi logici (koan) che distruggono ogni rappresentazione intellettuale.Hisamatsu fa notare come il nulla orientale non corrisponda alla concezione moderna dell'Occidente perché non suppone l'opposizione fra nulla ed essere. Egli ricorda in proposito lo Hyakuron di Daiba:

"Tutto, essere e non-essere, è nulla. Perciò ogni dottrina buddhista insegna che nella nostra vera essenza tutto, essere e non-essere, è nulla."

Hisamatsu introduce un altro argomento che ci permette di capire meglio questo punto. Il nulla dello zen non va interpretato come un'entità metafisica oppure ontologica. Perciò si esclude che esso sia l'esistenza o la mancanza di esistenza. L'autentico nulla dello zen è tutto perché è un principio psicologico che permea l'io. Ogni nostra sensazione e conoscenza si trova nell'io che è assoluta illusione, ovvero nulla. In questo senso tutto, davvero tutto, è nulla. Se pensiamo per un attimo di annullare l'io della nostra persona ci accorgiamo che spariscono anche le sensazioni e con loro l'intero mondo. La scoperta del buddhismo è talmente dirompente da costituire una novità anche per gli orientali. Lo zen, per molti versi, si oppone e costituisce una critica nei confronti del taoismo e del confucianesimo. Takuan Soho (1573-1645) scrisse nel Tokaiyawa parole molto dure in proposito:

"Il confuciano fraintende il vero nulla, lo rifiuta. Infatti lo considera unicamente un non-qualcosa e non capisce. Io chiamo vero nulla il fatto che non si serbi nulla nel proprio cuore. Ma il cuore è un attore che rappresenta ogni ruolo. Io chiamo vero nulla il fatto che il cuore non possa esaurire sé in nessun ruolo. Il vero nulla di cui parlo è ciò che è libero da ogni ruolo e da ogni compito."

Takuan ripresenta la concezione dello zen che interpreta il nulla come una condizione psicologica capace di operare positivamente. Ed è infatti questo nulla che libera l'uomo da ogni preconcetto e atteggiamento. Secondo Suzuki Daisetsu, il nulla giunge continuamente a portata della nostra mano, è sempre con noi e in noi, condiziona la conoscenza, i nostri atti, la stessa vita. Ma quando tentiamo di coglierlo e presentarlo come una cosa, esso ci elude e svanisce.Si capisce che il nulla dello zen non può essere né metafisico, né ontologico, ma nemmeno psicologico. Esso è tutte queste cose insieme e nessuna di esse presa singolarmente. Secondo Hisamatsu, questo nulla è onnipresente e si estende sulla totalità dei fenomeni fisici e psichici, eppure non ha manifestazione conoscibile dai sensi. Il nulla dello zen esclude ogni possibilità di essere determinato, ed è perciò veramente puro e intatto poiché assolutamente intangibile.Cos'è dunque questo nulla? Come si può descriverlo se è indicibile? Il buddhismo ricorre alla metafora dell'onda. Un'onda non cade dall'acqua dall'esterno, ma proviene dall'acqua senza separarsene. Scompare e torna all'acqua da cui ha tratto origine e non lascia nell'acqua la minima traccia di sé. Come onda si solleva dall'acqua e torna all'acqua. Come acqua esso è il movimento dell'acqua. Come onda l'acqua sorge e tramonta, e come acqua non sorge e non tramonta. Così l'acqua forma mille e diecimila onde e tuttavia resta in sé costante e immutata. Questa è l'essenza del nulla zen.
Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del Buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Bigatti, Franco, Il pensiero giapponese. L'incontro con la cultura cinese, Graphos, Genova, 1992.
Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.
Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il melangolo, Genova, 1993.
Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996.
Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992.
Sekida, Katsuki, Zen Training. Methods and Philosophy, Weatherhill, New York, 1975.
Suzuki, Daisetsu, The Zen Doctrine of No-Mind, Rider & Co., London, 1958.
Suzuki, Daisetsu, An Introduction to Zen Buddhism, Rider & Co., London, 1969.
Takuan, Soho, Lo zen e l'arte della spada, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

sabato 5 giugno 2010

Wakugumi, il paradigma teorico

Wakugumi
Il nuovo paradigma teorico della filosofia giapponese
di Cristiano Martorella

1. Nuovo paradigma

Nella terminologia filosofica si indica con paradigma (dal greco parádeigma) un insieme di teorie e pratiche che funge da modello nell’organizzazione del sapere scientifico. In inglese il termine è anche reso con la parola framework. In giapponese con wakugumi. In particolare si definisce con rironteki wakugumi un paradigma teorico.
Il termine paradigma ebbe ampia diffusione grazie all’uso che ne fece il filosofo americano Thomas Kuhn. Secondo Kuhn la scienza di un’epoca si rifarebbe a certi paradigmi scientifici finché le teorie non si dimostrano incapaci di produrre spiegazioni. In tal caso il paradigma dominante cade in disgrazia e viene sostituito da un nuovo paradigma. Fu quanto accadde con la teoria geocentrica tolemaica sostituita dalla teoria eliocentrica copernicana.
Kuhn mise in luce anche l’influenza di fattori di natura sociale e psicologica sulle scelte teoriche degli scienziati (1). Inoltre contestava l’idea che fosse possibile un progresso scientifico che conquisti incessantemente una sempre maggiore porzione di verità. Infatti, i paradigmi scientifici si sostituirebbero l’un l’altro e non dipenderebbero esclusivamente dalla teoria, ma piuttosto dal grado di sviluppo della società. Perciò la filosofia della scienza di Thomas Kuhn è anche una concezione alternativa e antitetica all’epistemologia di Karl Popper e all’empirismo logico di Rudolf Carnap (2).
La filosofia giapponese (è però corretto chiamarla nippo-europea considerando le sue origini) trattò presto le complesse questioni di filosofia della scienza affrontate agli inizi del Novecento in Europa e America. Tanabe Hajime scrisse Kagaku gairon (Introduzione alla scienza) (3). Miki Kiyoshi, allievo di Nishida Kitaro, espresse una posizione teorica che riconosceva l’influenza della società nei confronti del sapere scientifico, così come sostenuto da Thomas Kuhn. Secondo Miki le idee e le teorie nascerebbero sotto l’influsso e la spinta delle forze storiche (4). Questo rapido avvicinamento alle problematiche della scienza, e soprattutto il forte sviluppo tecnico del Giappone, posero i filosofi giapponesi nella posizione di poter giudicare i fatti secondo due prospettive differenti. Da una parte la tradizione della saggezza orientale fondata su un sapere intuitivo. Dall’altra parte la scienza occidentale dotata di metodologie e capacità analitiche. Non è sempre detto che queste prospettive siano opposte. Come vedremo più avanti, la filosofia nippo-europea ha costituito una sintesi di queste diverse forme di sapere.

2. Filosofia passata

Unificare la filosofia orientale e la filosofia occidentale in un unico paradigma. Ma è davvero tanto necessario? In realtà ciò non nasce soltanto da un’esigenza intellettuale. La filosofia orientale gode di una sua autonomia e un certo credito, e la filosofia occidentale continua a sussistere nonostante le tante difficoltà. Le questioni filosofiche del pensiero occidentale e di quello orientale possono continuare a rimanere separate. Resta però un ambito che non appare nella ricerca dell’intellettuale: l’esigenza storica. Senza l’unificazione del pensiero occidentale e del pensiero orientale non è concepibile una civiltà planetaria. L’ipotesi dell’affermazione del pensiero occidentale sull’intero pianeta è ben lontana dalla realtà. Quest’ultimo è minato alle sue basi da tendenze irrazionalistiche che si manifestano con intensità sempre più forte nella vita quotidiana. La confusione regna nell’odierno pensiero, incapace di riconoscere i fenomeni storici e culturali, troppo debole per proporre chiavi di lettura efficaci della realtà. Da molte parti si parla di crisi del pensiero occidentale, gettandosi senza criterio nelle braccia di pseudo-sistemi filosofici che si rifarebbero alla saggezza orientale. Oppure ci si barrica in difesa di una presunta superiorità della civiltà occidentale e della sua scienza. Contro tutto ciò si deve ergere una scienza filosofica abbastanza forte da respingere atteggiamenti esasperati e dettati da un’emotività incontrollata che si mascherano dietro nuovi idoli. Per rispondere a questa esigenza storica e sociale bisogna unificare il pensiero sotto un unico paradigma capace di comprendere anche ciò che viene considerato irrazionale. Il nostro intento è ricondurre l’irrazionale sotto una luce diversa, alla lettura di differenti forme di razionalità. Il concetto più flessibile di razionalità da noi elaborato dovrebbe permetterci di coniugare quindi le due forme di pensiero occidentale e orientale (5). Abbiamo però bisogno di procedere in un modo particolare. Affrontando la filosofia occidentale e la filosofia orientale in maniera tecnica, esse diverrebbero incomunicabili a causa dei diversi linguaggi. Noi conosciamo benissimo entrambe le terminologie e ci rendiamo conto dell’impossibilità di parlare di concetti diversi usando un unico linguaggio. Quel linguaggio filosofico che non esiste ancora. Per risolvere questo problema dobbiamo spogliarci del nostro habitus, non parlare più come filosofi, ma come ingenui pensatori. Dobbiamo raggiungere la massima semplificazione dei temi trattati. Quindi introdurremo pochissimi concetti e li spiegheremo in maniera davvero elementare.
La filosofia giapponese ci fornisce una frase che è la sintesi della riflessione zen: ku soku ze shiki. Abbiamo la seconda parte che corrisponde alla lettura capovolta della stessa frase: shiki soku ze ku La circolarità del pensiero è presente sia nella concezione giapponese, e più in generale orientale, sia nell’ermeneutica filosofica. Costituisce una similitudine molto importante ed è giusto metterlo in luce anche in questo caso.
La traduzione più semplice è: "il vuoto è la forma e la forma è il vuoto"(ku soku ze shiki, shiki soku ze ku). Si tratta di un brano dell’importante Sutra del cuore (6).
La traduzione letterale è: "non c’è cielo senza colore, non c’è colore senza il cielo". Nella lingua giapponese l’ideogramma di cielo indica anche il vuoto, e quello del colore indica le cose sensibili (7). Dunque un’altra possibile traduzione potrebbe essere: "non c’è vuoto senza colore, non c’è colore senza vuoto". Da cui consegue anche: "non c’è il nulla senza le forme sensibili, non ci sono forme sensibili senza il nulla".
Resta un punto da chiarire. Il nulla giapponese (mu) viene identificato nella frase del Sutra del cuore con la "forma". Dunque cosa si intende con nulla?
Tenendo conto del senso giapponese del nulla, un’altra traduzione possibile potrebbe essere: "la forma è il contenuto e il contenuto è la forma". Questo nulla è un principio metafisico. Il nulla sarebbe l’indistinto e l’indeterminato da cui scaturiscono ed emergono le cose sensibili. Perciò alcuni traduttori lo considerano anche come "essere". Per la dottrina zen, questo nulla ha però un valore conoscitivo. Il vuoto mentale (mushin) permette la comprensione delle cose. Dunque la filosofia giapponese considera il nulla come un principio della conoscenza. L’essenza delle cose e la conoscenza coincidono. C’è un’identità fra gnoseologia, logica e ontologia. Ed è possibile grazie alle proprietà del pensiero giapponese che si rifanno alla tradizione orientale, la filosofia del passato.

3. Filosofia presente

Ma il centro della riflessione del Sutra del cuore fa parte anche degli ultimi indirizzi dell’epistemologia contemporanea. Ormai è presente anche nel pensiero occidentale il riconoscimento della necessità di eliminare la distinzione fra la forma e il contenuto. Quando Donald Davidson (8) afferma che si deve abbattere la distinzione fra schema e contenuto non sta forse usando una terminologia diversa per indicare ciò che è affermato anche dalla filosofia giapponese? Vediamo con precisione questa corrispondenza. I giapponesi usano la parola iro (9) per indicare le cose sensibili, più in generale le sensazioni. Davidson usa il termine "contenuto empirico" per indicare l’esperienza sensibile. Il nulla giapponese corrisponde alla conoscenza ultima della realtà, l’essenza dell’essere, la metafisica orientale. Dall’altra parte Davidson parla di "schema concettuale" ossia di un sistema concettuale metafisico. La corrispondenza fra la "metafisica" del nulla e la "metafisica" dello schema concettuale è perfetta. Sia Davidson che la filosofia giapponese si stanno riferendo alla stesso concetto. Ci accorgiamo che la critica al terzo dogma dell’empirismo di Davidson corrisponde ai principi del Sutra del cuore. Inoltre Davidson, sostenuto dagli studi di Sellars, critica il "mito del dato". Anche lo zen ritiene i dati sensibili illusori, e che non si possa fondare una conoscenza perfetta su di essi.
Ma l’affermazione di identità fra il nulla e l’esperienza sensibile, lo schema concettuale e i contenuti empirici, finisce per fornire una diversa concezione dello schema concettuale e della metafisica. La metafisica, più in generale l’attività concettuale, non può esistere senza esperienza sensibile. Perciò è impensabile il vuoto senza le cose sensibili e il pensiero senza l’esperienza. Infine tutto ciò che è formale viene riportato al concreto: la forma è l’essere, l’essere è la forma. E ciò corrisponde anche alla nostra proposta di riportare la nozione di schema concettuale in un ambito più concreto, in quello operativo di habit.
La convergenza dello zen giapponese e dell’epistemologia contemporanea non è una coincidenza. C’è una presa di coscienza della confluenza della riflessione filosofica di duemila anni. Si può sperare che dopo qualche millennio di speculazione filosofica sia possibile trovare delle conclusioni comuni a tutti gli uomini di questo pianeta.

4. Filosofia futura

Non ci resta che riconoscere l’esistenza di un cammino comune della filosofia giapponese, europea e americana. Come si coglie dalla nostra trattazione, non sussiste alcun motivo di separazione fra questi indirizzi della filosofia. C’è una sola difficoltà: trovare gli ingegni capaci di unificare tale pensiero. Purtroppo gli istituti culturali non hanno ancora presente questa situazione e non sentono il bisogno di unificare le filosofie di culture diverse. Ma ci sembrerebbe veramente strano che la nostra proposta e lo studio che abbiamo presentato sia un caso singolare nel panorama scientifico. Capiamo le difficoltà che sorgono nel dover possedere un bagaglio di conoscenze che permetta di destreggiarsi con la filosofia giapponese e occidentale, però non possiamo credere di essere gli unici capaci di concepire e pensare qualcosa del genere.
Un ultimo problema va risolto. Quello del realismo opposto al relativismo. Ci si chiede se è possibile conoscere la realtà finale delle cose. Questo punto trova una soluzione nella seguente affermazione di Edmund Husserl:

"L’effettivo processo delle nostre umane esperienze è tale da costringere la nostra ragione a superare le cose date visibilmente e a sostituirvi una «verità scientifica». Piuttosto si può pensare che il nostro mondo visibile sia l’ultimo, "dietro" il quale non ci sarebbe nessun mondo "fisico" ossia che le date cose nella percezione non ammettano una determinazione fisico-matematica, che i dati dell’esperienza escludano qualunque fisica sul tipo della nostra." (10)

La posizione di Husserl coincide con quella della filosofia giapponese, e ciò è testimoniato anche da molti lavori di filosofi giapponesi che hanno visto nella fenomenologia di Husserl un certa corrispondenza. Il vecchio motto di Husserl, "ritornare alle cose così come sono" coincide perfettamente con l’idea giapponese di "mono o aware" (percepire il sentimento delle cose). Come abbiamo visto, la filosofia giapponese è radicalmente fenomenologica e tratta gli argomenti sempre in relazione alle percezioni e alla coscienza. Ma l’idea di Husserl, che si trova anche nel pensiero giapponese, permette di abbandonare qualsiasi opposizione fra realismo e relativismo. Se non esiste una verità ultima e tutto quello che abbiamo sono le percezioni, d’altronde non ha senso parlare di altre realtà. Sia il realismo che il relativismo non sussistono. Si tratta di un problema, come fa notare Husserl, nato dalla nostra concezione della "verità scientifica". Come direbbe Wittgenstein, esso è uno pseudo-problema nato da una cattiva terminologia, dall’uso improprio del linguaggio. Infatti il problema della "realtà ultima delle cose" è soltanto una questione dibattuta dai filosofi che possiedono un linguaggio tecnico capace di amplificare gli errori linguistici. Chi è privo di tale linguaggio è incapace anche di porre la questione.
Non è pensabile qualcosa di diverso da ciò che ci forniscono i nostri sensi. Non abbiamo altro a disposizione. Le nostre costruzioni concettuali non possono controllare le sensazioni. L’intelletto permette di interagire con la realtà, ma il suo potere sulla sensazione non è assoluto. Non possiamo negare la realtà delle sensazioni, anche se sono fallibili e imprecise. L’intelletto non può sostituirsi ai sensi.
Infine il dubbio è alla base di ogni sano pensare. Qualsiasi indagine scientifica e filosofica non può fondarsi su certezza ed esattezza. Il dubbio resta la misura dell’efficacia del pensiero. La correttezza è il risultato dell’interagire fra il dubbio e la conoscenza. Minori sono i dubbi, maggiore è il nostro potere esplicativo. Ma se i dubbi sono completamente annientati, allora essi sono stati sostituiti da una fede e dal fanatismo. Non siamo più filosofi né scienziati ma incantatori.
Vogliamo concludere con un passo di Richard Rorty che abbiamo già citato perché crediamo che l’osservazione del filosofo americano sia in linea con i nostri intenti.

"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l’idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (11)

Il nostro lavoro costituisce un’alternativa, come auspicato da Rorty, che va oltre il realismo e l’idealismo poiché la logica giapponese non assume la verità né come coerenza né come corrispondenza. La filosofia giapponese non elabora costrutti teorici e concettuali sugli oggetti e questo impedisce che sorgano questioni del genere. Abbandonata ogni forma di dualismo, non resta alla filosofia che rinunciare a occuparsi della conoscenza oggettiva delle cose, per puntare la sua attenzione alla comprensione delle azioni sulle cose. Il passaggio da una filosofia speculativa teoretica a una filosofia sperimentale interazionistica sarebbe del tutto naturale. Qualcuno potrebbe chiedersi se sarebbe corretto chiamare ancora filosofia questo genere di attività. La risposta è che nessuno ci obbliga a fare filosofia secondo un modo consuetudinario.

Note

1. Cfr. Kuhn, Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978.
2. Popper, Karl, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1976; Carnap, Rudolf, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze, 1976.
3. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
4. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
5. La concezione alternativa della razionalità che abbiamo elaborata ci è servita per spiegare le caratteristica dell’economia giapponese. Cfr. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.
6. Si può leggere una traduzione in italiano del Sutra del cuore in Hakuin, Veleno per il cuore, Ubaldini, Roma, 1998, pp.143-144.
7. La frase fu al centro della riflessione del dialogo fra Heidegger e il filosofo giapponese Tezuka Tomio. Cfr. Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1990, p.93. Bisogna ricordare che molti filosofi giapponesi studiarono in Germania sotto la guida di Heidegger all’inizio del XX secolo. I rapporti, purtroppo poco noti, fra la filosofia occidentale e giapponese sono dunque già stati stretti in altri tempi. Si consulti Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.
8. Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
9. Nella frase citata è shiki. In giapponese esistono diverse pronunce per lo stesso ideogramma. Iro è la lettura kun yomi e shiki è la lettura on yomi.
10. Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965, Par.47, Cap.3, Sez.2, p.103.
11. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p.51.

Ronri, la logica giapponese

Ronri, la logica giapponese del concreto
di Cristiano Martorella

25 giugno 2002. La parola giapponese ronri traduce sia nel linguaggio ordinario sia nella terminologia filosofica la parola logica. Ma la corrispondenza fra le due parole, se è possibile nel linguaggio ordinario, presenta enormi divergenze e differenze nel pensiero filosofico. Ronri è composto da due kanji: ron (discussione, teoria) e ri (ragione). Però il significato di ragione è decisamente diverso nelle antiche civiltà orientali. Elémire Zolla, nel suo La nube del telaio, ci ricorda questa distinzione.

"[…] li [la ragione: li in cinese, ri in giapponese; ndr] nel suo ideogramma contiene un campo sul quale si impianta un villaggio. L’irrazionale sarà dunque ciò che non rientra nelle costumanze di un borgo. In genere nelle civiltà orientali l’opposizione di ragione a irrazionalità non ha il pathos che la contrassegna in Europa. Uno dei motivi è che la diade si trasfonde naturalmente in triade o una quadripartizione. Questa propensione si può chiamare, oltre che indiana, orientale in genere. […] Nel sistema castale indù il contrasto fra l’emozione scatenata ed energica del guerriero e la razionale quiete del bramino è mediato dalla convivenza con la casta dei mercanti e quella dei contadini […] Sempre in India la diade si risolve in triade e quindi in mediazione. Fra conoscente e conosciuto media il conoscere, fra soggetto e oggetto l’unione, fra amante e amato l’amore. Si può dire che fra ragione e irrazionalità, nella misura in cui si presentino, media l’ispirazione."

Zolla fa notare anche che la logica indiana non ignorava le regole della logica rigorosa del genere aristotelico. Questi meccanismi del pensiero era conosciuti ed erano stati enunciati nel Nyaya Sutra nel periodo compreso fra il 200 a.C. e il 150 d.C., così come il sillogismo esposto in cinque passaggi (tesi, enunciazione, ragione, esempio probante, applicazione). Dunque la sapienza orientale partiva dal riconoscimento di questi meccanismi del pensiero, ma li considerava insufficienti (al contrario degli occidentali che li pongono come princìpi). Fu soprattutto il buddhismo a enfatizzare questa considerazione della logica, della ragione e del pensiero. Nagarjuna, saggio buddhista indiano vissuto intorno al II secolo d.C., mise in crisi le poche certezze della logica e del pensiero discorsivo nello Sterminio degli errori. Elémire Zolla riassume così le caratteristiche salienti del buddhismo:

"La logica buddhista nega che di qualsiasi oggetto si possa dire che esista o non esista, che esista e non esista, o che non esista e non esista […]"

Il pensiero occidentale in modo indipendente si avvicinò spesso alle stesse posizioni, ma fu presto ricondotto nei binari della logica formale, nella tradizione aristotelica-tomistica. Ad esempio, Johannes Eckhart (1260-1327) aveva esposto gli stessi dubbi sulla logica giungendo a conclusioni simili ai saggi buddisti, ma ricevette gravi accuse di eresia. La logica occidentale, supportata da un apparato politico e ideologico (rinnegarla significava bruciare sul rogo come accadde per Giordano Bruno nel 1600), indicava una rigida corrispondenza fra realtà e pensiero. Il principio era esposto come adaequatio rei et intellectus. La verità era una semplice corrispondenza fra il pensiero e le cose. Una concezione estremamente lontana e incompatibile dalla logica buddhista. In effetti si deve considerare seriamente la pericolosità del pensiero occidentale che pretende di poter ricondurre la realtà ad un’immagine mentale (rappresentazione). In questo modo sfuggirà la complessità e pluralità dell’esistenza, e per non ammettere l’ignoranza si negherà e violenterà la realtà finché apparirà come la pensiamo.
Invece il buddhismo ammette e riconosce l’ignoranza ritenendo che lo scopo della dottrina sia renderci consapevoli dell’ignoranza piuttosto che inorgoglirci della conoscenza. La consapevolezza dell’ignoranza è uno dei "sei pilastri della saggezza" (consapevolezza dell’io, del presente, dell’impermanenza, dell’universo, dell’ignoranza, dell’amore).
Nel XIX e XX secolo la filosofia giapponese si arricchì di ulteriori riflessioni avendo approfondito lo studio del pensiero occidentale (non sempre arroccato sulle consuete e fallaci posizioni che abbiamo prima esposto). I filosofi giapponesi trovarono estremamente interessante l’elaborazione intellettuale degli europei, in particolare Georg Wilhelm Friedrich Hegel che esponeva un sistema in cui la mediazione fra gli opposti era un passaggio indispensabile. Inoltre la distinzione fra spirito e materia era da Hegel decisamente ridimensionata, se non addirittura rifiutata. Fatto estremamente gradito ai buddisti che, come visto in precedenza, ritenevano fuorviante porre distinzioni nella sfera dell’essere.
Fu proprio lo studio dei sistemi filosofici occidentali a spingere i filosofi giapponesi all’elaborazione di una logica che recuperasse la tradizione nipponica inserendola nel moderno contesto degli studi internazionali. L’esigenza era avvertita poiché si riteneva insufficiente la logica occidentale e incapace di spiegare il pensiero orientale.
Nishida Kitaro (1870-1945) introdusse il termine toyoteki ronri (logica orientale) per applicare una distinzione e sollevare la questione delle diverse tradizioni filosofiche. Egli propose una logica definita basho no ronri (logica del luogo) che comporta l’identità dei contrari (nozione orientale presente anche nel pensiero greco con Eraclito intorno al V scolo a.C.). Secondo Nishida l’uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (1). La determinazione lineare e la determinazione circolare, l’una tipica del pensiero occidentale e l’altra del pensiero orientale, sarebbero anch’esse due aspetti diversi della stessa realtà. E non sarebbero affatto in contraddizione come usualmente si crede. Elaborando il pensiero di Hegel, e arricchendolo dell’esperienza e della riflessione del buddhismo, Nishida perviene a una risoluzione di questa opposizione apparente (2). Analizzando la concezione del tempo e dello spazio si riconoscono i due modi di determinare: lineare e circolare. Il tempo è comunemente concepito come lineare, esso andrebbe dal passato al futuro. Ma se il passato è quello che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso (3). Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l’attimo presente. In conclusione, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Poiché la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Le determinazioni del tempo sarebbero possibili in due modi, l’uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l’altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude.

"L’esterno è l’interno, l’interno è l’esterno, l’uno è il molteplice, il molteplice è l’uno".

Così Nishida riporta la logica formale nell’ambito della sua fondazione, alle categorie di spazio e tempo che il processo di astrazione aveva completamente nascosto.
La logica del luogo costituisce un superamento della logica aristotelica, ma nello stesso percorso della filosofia occidentale intrapresa da Hegel. Se Immanuel Kant riteneva che la logica avesse raggiunto con Aristotele il suo compimento e non avesse potuto compiere nessuno miglioramento (4), non era così per Hegel e Nishida che raccolsero la sfida. Innanzitutto bisognava liberarsi di due ceppi: il principio di non-contraddizione e il principio d’identità.
Il principio d’identità afferma l’identità di una cosa con se stessa: a = a.
Il principio di non-contraddizione afferma che una cosa non può contemporaneamente essere e non essere: ~ ( a ^ ~ a ).
Questa liberazione fu possibile riportando la logica nel concreto, ossia nell’ontologia. In Oriente la logica non si era mai spostata dall’ambito pratico e concreto all’ambito astratto e speculativo perché il pensiero induista lo impediva (le forme del divino non erano mai trascendentali ma in maniera pagana materiali), il pensiero buddhista lo riteneva ingannevole (i pensatori buddhisti conoscevano bene la logica formale e la ritenevano un’astrazione a volte riduttiva a volte estremista), e il pensiero confuciano la riteneva utile non in se stessa ma soltanto per fini pratici.
Ma i filosofi giapponesi del Novecento avevano presente anche l’enorme potere costituito dalla scienza logico-matematica. L’idea logico-formale permetteva di controllare il mondo tramite misurazioni quantitative che riducevano la qualità del fenomeno a serie numeriche. L’esercizio del potere era esercitato tramite freddi calcoli che eliminavano ogni indecisione e riserbo. Il dominio dell’uomo sulla natura era totale e onnipotente. Una forza che avrebbe piegato anche le categorie della logica aristotelica. Può una città sparire in pochi secondi? L’essere può ridursi in nulla in un istante? All’incredulità degli Eleati rispose la storia il giorno 6 agosto 1945 ad Hiroshima.
La filosofia, sia occidentale sia orientale, non era stata in grado di contenere questo potere straordinario ed equilibrare le forze della tecnica e le volontà degli uomini.
Tanabe Hajime (1885-1962) si era occupato degli stessi problemi logici di Nishida, e aveva proposto una logica della specie (shu no ronri). Con specie o classe, si intende quel concetto capace di mediare l’universale e il particolare. La classe delle mele indica tutte le mele, la classe della frutta indica mele, pere, etc. Ma nel dopoguerra Tanabe pervenne a un ripensamento basato sui tragici eventi storici. Tanabe riconobbe di aver accentuato l’importanza dello stato nazionale, e che ciò proveniva dall’uso eccessivo del principio d’identità. In Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) segnalò i limiti della ragione rispetto all’esistenza e indicò il male come una assolutizzazione della prospettiva dell’individuo (5). Invece vedere e riconoscere le diversità sarebbe l’atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell’essere umano. Tanabe Hajime, spesso critico nei confronti di Nishida, ne riconobbe infine la capacità di relativizzazione di ogni prospettiva.
La logica, all’interno della filosofia, doveva preservare e custodire le differenze aprendo il pensiero alla pluralità del mondo, invece di chiuderlo negli schematismi che si impongono come dominio.
Takahashi Satomi (1886-1964) riprese l’idea di elaborare una logica unitaria che unificasse la tradizione orientale e la scienza occidentale. Perciò propose una "dialettica avvolgente" (hobenshoho) che si presentava come inclusione fondamentale di ogni dialettica. Secondo Takahashi Satomi la dialettica avvolgente era metalogica. Ma egli evita comunque di indicare il piano trascendentale come risolutivo, anzi tiene ancorato l’intelletto all’esperienza concreta (ovvero l’immanente).

"La filosofia è un sistema intellettuale della totalità dell’esperienza che noi, di volta in volta, possiamo raggiungere."

Tanabe Hajime riteneva invece che la filosofia non potesse limitarsi a riconoscere la contraddittorietà dell’esistenza, piuttosto dovesse elaborare una mediazione continua della logica con l’irrazionalità dell’esistenza. Perciò propose la dialettica della mediazione assoluta (zettai baikai no benshoho). Takahashi Satomi si oppose, anche apertamente, alle soluzioni proposte dai suoi colleghi.

"Nishida e Tanabe cercano di portare dentro la logica ciò che è al di là della logica. Contrariamente a ciò, io tento di mantenere la filosofia come logica e pongo la religione in quanto al di là della logica come al di sopra o al di fuori della filosofia."

Anche se le posizioni dei filosofi giapponesi del Novecento sono diverse, e ciò dovrebbe essere considerato una ricchezza piuttosto che una penalità, le caratteristiche della logica giapponese sono decisamente evidenti. I filosofi giapponesi cercarono di limitare il potere di astrazione della logica e cercarono di stabilire un equilibrio fra il pensiero formale e l’esperienza concreta. Questa concretezza della logica giapponese venne ben riassunta da Nishida Kitaro.

"Ci sono probabilmente diverse opinioni sulla natura della verità, per me essa è quello che si avvicina maggiormente all’esperienza concreta. Di solito si afferma che la verità è universale. Ma se con ciò si vuol intendere che essa è un’astrazione, si batte una strada falsa. La verità assoluta è il dato concreto e immediato che sintetizza i vari aspetti. Esso è alla base di tutte le verità, e ciò che di solito viene chiamato verità ne è stato desunto per astrazione. La verità è considerata sintetica, ma questa sintesi non è una sintesi di concetti astratti. La vera sintesi si trova nel dato immediato." (6)

Anche se può sembrare paradossale la logica giapponese si propone come una sintesi dell’astratto e del generale nel concreto particolare. Ma questa apparente contraddizione è soltanto la caratteristica naturale della realtà. Il pensiero, e quindi la logica formale, non è altro che una costruzione che parte dal concreto, e come tale fa parte del reale, e al reale deve essere riportata.


Note

1. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1949, vol.1 p.86 e vol.7 p.204.
2. Il debito alla filosofia di Hegel è enorme e segnalato dalle citazioni dello stesso Nishida. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Iwanami shoten, Tokyo, 1951, p.4. Il buddhismo traspare negli scritti e rappresenta una delle scelte di vita fondamentali di Nishida.
3. Qui è esplicita la ripresa della posizione hegeliana, poi ripresa anche implicitamente da Heidegger. "Il tempo è l’essere che mentre è, non è, e mentre non è, è ".Cfr. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Sez.1 Par.258, Laterza, Roma, 1987, p.233.
4. Cfr. Kant, Immanuel, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, Laterza, Bari, 1966, pp.15-16.
5. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1946.
6. Nishida, Kitaro, Zen no kenkyu, Iwanami shoten, Tokyo, 1993, p.46.

Bibliografia

Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami shoten, Tokyo, 1946.
Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
Nakae, Chomin, Nakae Chomin shu, Chikuma shobo, Tokyo, 1967.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1966.
Piovesana, Gino Kiril, Filosofia giapponese contemporanea, Patron, Bologna, 1968.
Takahashi, Satomi, Hobenshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma shobo, Tokyo, 1976.
Zolla, Elémire, La nube del telaio. Ragione e irrazionalità fra Oriente e Occidente, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.
Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami shoten, Tokyo, 1963.

Chishiki, conoscenza e ignoranza

Chishiki
La conoscenza attraverso la consapevolezza dell’ignoranza
di Cristiano Martorella

18 settembre 2002. Chishiki to mushin, ovvero conoscenza e vuoto mentale. Due realtà apparentemente opposte. Però la filosofia giapponese fornisce alcuni concetti alternativi al pensiero occidentale che costituiscono un fondamentale arricchimento del sapere umano. Questa semplice osservazione si rivela ancor più vera dinanzi ai concetti di conoscenza (chishiki) e ignoranza.
Negli ultimi anni si è consolidata in Occidente una concezione della conoscenza esposta dall’epistemologia americana. In particolare il funzionalismo computazionale ha propagandato una visione del pensiero riconducibile alla macchina a stati finiti ideata da Alan Turing. L’idea di una macchina pensante fu sostenuta da Turing in un celebre articolo apparso nella rivista "Mind" nel 1950 (1).
Piuttosto che affrontare complesse indagini sulla natura del pensiero, Alan Turing si limitò a proporre la possibilità che una macchina potesse imitare le risposte di un uomo rendendosi indistinguibile. Il "test di Turing" prevedeva che l’intelligenza artificiale non sarebbe stata distinguibile dall’intelligenza umana.

"Un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano." (2)

Il successo del funzionalismo computazionale fu favorito dal rapido sviluppo dei calcolatori e dell’informatica che sembrava convalidare le tesi e l’ottimismo di Alan Turing (3). Ma la tesi secondo cui la mente funziona come un computer digitale non si basa su risultati concreti, piuttosto è la considerazione dell’idea dell’intelligenza come calcolo e manipolazione formale di simboli (una tradizione consolidata nella scienza occidentale e anticipata da Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz). Si tratta dunque di una teoria interna alla filosofia occidentale, e non è affatto un problema di ingegneria elettronica come appare.
Tuttavia l’intelligenza artificiale aveva assunto un ruolo talmente propositivo da diventare un argomento filosofico autonomo, specialmente in quella disciplina definita filosofia della mente (ma anche nella filosofia del linguaggio e della scienza, nella psicologia cognitiva, senza dimenticare il ruolo dominante nelle neuroscienze). L’epistemologia americana diede immensa considerazione alle teorie e ricerche di questi studiosi. Allen Newell ed Herbert Simon sembrarono rappresentare i capostipiti di una nuova concezione della mente, del pensiero e della filosofia. Qualcosa che sembrava fornire risultati più concreti delle precedenti tradizioni filosofiche. Jerry Fodor ed Hilary Putnam contribuirono ad elaborare un insieme di tematiche che diedero spessore e dignità all’intelligenza artificiale come disciplina filosofica. Ciò ebbe una ricaduta notevole sulle consuete concezioni di conoscenza e pensiero. Fodor fornì anche un tentativo di spiegazione del funzionamento della mente umana e del linguaggio (4).
Nonostante l’approccio orientato alla tecnologia, l’epistemologia americana si rivelava più conservatrice di quanto invece apparisse. Il modello dell’uomo come macchina era un’elaborazione cartesiana (5). Risulta interessante constatare come il dualismo cartesiano mente/corpo corrisponda al dualismo informatico software/hardware, rivelando l’antichità di questa concezione. E la formalizzazione del linguaggio era un progetto leibniziano (6).
L’epistemologia americana non ha fatto altro che radicalizzare una tendenza della filosofia occidentale giustificandola con i successi della tecnologia informatica. Purtroppo queste discipline sono accostate in modo arbitrario. L’ingegneria elettronica non necessita di alcuna giustificazione filosofica, mentre l’epistemologia sembra approfittare dei vantaggi dell’elettronica per avallare le sue tesi.
Il risultato più evidente e scandaloso è nella concezione della conoscenza come dato cumulativo. Il sapere è ridotto a una serie di informazioni, come in un database, conservate e organizzate. La filosofia orientale sembra non condividere questa visione della conoscenza. Addirittura lo zen suggerisce che la vera conoscenza sia soltanto quella ottenuta tramite il vuoto mentale (mushin). Comunque, il buddhismo sposta drasticamente l’attenzione dalla conoscenza alla consapevolezza dell’ignoranza. Credere di conoscere sembra la maniera più ovvia per evitare di conoscere. Perciò il buddhismo pone la "consapevolezza dell’ignoranza" come uno dei sei pilastri della saggezza.
La consapevolezza dell’ignoranza non è una dottrina esclusivamente orientale, ma apparteneva anche alla tradizione degli antichi greci. Il saggio Socrate, nominato dall’oracolo di Delfi come il più sapiente fra i greci, affermò di non sapere così da conoscere qualcosa in più rispetto a chi credeva di sapere senza sapere. A parte il contenuto sofistico della frase socratica, il filosofo ateniese era veramente coerente con quanto affermava. Lo zen rifiuta la dottrina scritta insistendo invece su metodi che risveglino la consapevolezza dell’allievo. Socrate applicava un metodo detto maieutica che rifiutava la scrittura preferendo ad essa il dialogo (dialéghesthai). L’Occidente vide nelle stranezze di Socrate un atteggiamento eversivo e politicamente pericoloso, e lo si condannò quindi a morte nel 399 a.C. Questo fu il caso più eclatante (ma non l’unico, si pensi anche a Giordano Bruno nel 1600) dell’intolleranza delle società occidentali nei confronti di chi metteva in dubbio la conoscenza ufficiale. Ciò rivelava anche quanto la conoscenza fosse identificata con il potere. Atteggiamento non dissimile da quello attuale nei confronti dell’informazione e dei mass-media.
Rompere i ceppi che imprigionano la mente umana è il compito che si è assegnato il buddhismo zen. A questo punto la conoscenza si rivela un fardello opprimente che ci impedisce di muoverci. D’altronde Buddha aveva insegnato che è l’attaccamento a generare la sofferenza. Ecco come Deshimaru riassume questi princìpi.

"Spezzare i legami, le abitudini, amare senza desiderio di possesso, agire senza finalità personali, tenere le mani aperte, donare, abbandonare ogni cosa senza paura di perdere: ecco la disciplina dell’adepto zen ! La verità risiede nella semplicità. […] Il maestro Dogen ha detto: Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostra dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia." (7)

Come si può pensare di conoscere se ci si attacca a quattro stracci di idee come a un feticcio? Il buddhismo zen vanifica l’edificio occidentale della sapienza come accumulazione di dati e ci apre una prospettiva molto più ricca. In concordanza con le posizioni più avanzate della filosofia occidentale (in particolare Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger) si mette in dubbio la concezione cumulativa della conoscenza.
Per il filosofo Nishida Kitaro la conoscenza è un’azione piuttosto che il possesso di dati.

"Secondo l’epistemologia tradizionale, la conoscenza viene costruita secondo il soggetto cognitivo, e all’opposto il dato è pensato come meramente materiale o latente. […] Tuttavia, conoscere è agire e per agire si deve dare un fondamento. Di che cosa si tratta? Deve essere sempre il mondo della realtà che viene colto nell’intuizione attiva." (8)

Insomma, la prospettiva del funzionalismo computazionale è viziata alla base dalla mancanza di un rapporto con la realtà (9). Non è sufficiente riprodurre il mondo nel computer per fingere di conoscerlo. E altrettanto vale per la mente umana che crede di conoscere tramite le rappresentazioni. La difficoltà non è quindi attribuibile alla tecnologia ancora una volta imputata ingiustamente di meriti o colpe che non la riguardano. Piuttosto questa conoscenza non è verace a causa di un errore filosofico, quindi umano. Ma questa consapevolezza può renderci ancora più disponibili e aperti verso il mondo, perché sapere di non sapere è il primo passo per il risveglio dell’intelletto.

Note

1. Turing, Alan, Computing Machinery and Intelligence, in "Mind", vol.59, 1950, pp.433-460.
2. Bechtel, William, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1992, p.194.
3. L’articolo di Turing era ben articolato e sviluppato, prendendo in considerazione anche le possibili obiezioni. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein prese in seria considerazione il quesito di Turing: "Potrebbe pensare una macchina?" Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.
4. Fodor, Jerry, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988; Fodor, Jerry, Il problema del significato nella filosofia della mente, Il Mulino, Bologna, 1990.
5. Descartes, René, Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986.
6. Russell, Bertrand, La filosofia di Leibniz, Newton Compton, Roma, 1972.
7. Deshimaru, Taisen, Il vero zen. SE, Milano, 1993, pp.24-25.
8. Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001, p.49.
9. Circa la posizione dell’epistemologia americana si legga anche l’opera di Hilary Putnam, importante esponente di questa corrente filosofica. Cfr. Putnam, Hilary, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.