martedì 29 dicembre 2009

Non distruggere il diverso

Lettera pubblicata dal quotidiano "Il Secolo XIX".

Cfr. Cristiano Martorella, Non si costruisce il futuro distruggendo le diversità, in "Il Secolo XIX", lunedì 28 dicembre 2009, p.16.

Non si costruisce il futuro distruggendo le diversità
Se è vero che dobbiamo garantire l'unione dell'umanità, è altrettanto vero che ciò non può avvenire distruggendo le diversità altrui. Infatti, il concetto che si sta diffondendo è che esista una sola civiltà possibile, ossia quella occidentale, condannando implicitamente ogni altra forma di civiltà. Si aggiunge a ciò il radicalismo e il fondamentalismo religioso che non è più una caratteristica solo mediorientale, ma contamina le posizioni e i modi di vedere cristiani, affermando la pretesa che tutti si identifichino in una società diretta dall'autorità morale di una unica chiesa. Ciò non costituisce soltanto un disagio per chi non si riconosce nella religione cristiana, ma può generare la frantumazione della società contemporanea che è ormai multietnica e multiculturale. La pretesa politica di rifiutare il multiculturalismo e il relativismo, rappresenta il fallimento teorico della capacità di considerare la realtà per ciò che è, invece di ciò che si vorrebbe che fosse. In questo modo si alimenta ogni genere di illusione, frustrazione e infine conflitto.
Cristiano Martorella

lunedì 21 dicembre 2009

Filosofia comparata giapponese

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.
di Cristiano Martorella
 
Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.
La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).
Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.
Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale “filosofia” (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.
Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo),  ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel “seguire una regola” una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
 "Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
 "La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
 "Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
 "Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
 "Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
 "Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?"  (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.


Bibliografia
Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.
Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.




Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.

Bodai, illuminazione e buddhismo

Saggio sul concetto di illuminazione nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Bodai.

L’Associazione Culturale Eumeswil ha organizzato con il patrocinio del comune di Firenze, un ciclo di conferenze su un tema prefissato riguardante la spiritualità, la tradizione e la conoscenza di sé. Il giorno sabato 5 maggio 2007, alle ore 17.00, si è svolta presso l’Educandato Statale SS. Annunziata in Firenze, la conferenza intitolata “Il satori nel buddhismo zen”. Il relatore cercherà con la seguente relazione di riassumere e approfondire i temi trattati.


Bodai, il risveglio dell’autentico essere
di Cristiano Martorella

Il concetto di illuminazione, pur essendo fondamentale e centrale nel buddhismo, non è affatto chiaro e definito, restando per sua stessa natura ineffabile e sfuggevole. Eppure, il Buddha storico, Shakyamuni, acquisisce il titolo di Buddha in virtù della sua illuminazione. In sanscrito illuminazione si dice bodhi, termine tradotto in giapponese con le parole bodai e satori. Una persona che ha raggiunto l’illuminazione, la bodhi, è perciò detta Buddha. Quindi si è Buddha soltanto tramite l’illuminazione. Tuttavia l’illuminazione non può essere conosciuta da chi non l’ha raggiunta perché l’illuminazione è un’esperienza. Il paradosso è evidente. Si parla dell’illuminazione di Buddha pur senza avere un concetto chiaro di cosa sia. Si ammette, per definizione, che sia inconoscibile se non si è Buddha. Buddha soltanto possiede l’esperienza dell’illuminazione. Per quale motivo non esiste un concetto chiaro di illuminazione? Questo avviene perché l’illuminazione non è un concetto e nemmeno un’idea o intuizione. L’illuminazione è un’esperienza. Esperienza di cosa? Semplicemente l’esperienza dell’illuminazione. L’illuminazione è un’esperienza per sé che non ha un oggetto o contenuto particolare. Quindi si può dire per esteso e più chiaramente che l’illuminazione è l’esperienza di una condizione, uno stato d’essere. Però la difficoltà nella comprensione della questione è soltanto evidenziata, non è ancora risolta. L’illuminazione è un’esperienza. Quindi, come qualsiasi esperienza, essa innanzitutto si prova, viene esperita, sperimentata. La descrizione verbale non trasmette affatto l’esperienza (1). Questa caratteristica dell’illuminazione ha costretto alcune scuole zen, come la setta Rinzai, ad adottare una strategia verbale che ha lo scopo di mostrare il limite della parola, e quindi superarlo. Al contrario, la setta Soutou, pratica una meditazione silenziosa chiamata zazen, consistente nello stare seduti in silenzio. Anche se opposti questi metodi sono entrambi validi (2). La validità di una pratica buddhista si misura sui risultati e gli effetti conseguiti. Non è un’astratta elaborazione. La verifica è l’unico criterio accettabile (3). Il Buddha spiegava che i suoi insegnamenti sono espedienti, mezzi per conseguire la buddhità. Lo scopo del buddhismo non è il rituale, lo scopo è l’illuminazione. Essendo l’illuminazione un’esperienza, è perciò strettamente personale. Per questo motivo i metodi adottati devono adeguarsi alla persona particolare. L’abilità nell’usare espedienti diversi adatti alle singole persone e alle particolari situazioni era una capacità del Buddha. I mezzi (4) possono essere i più disparati : un discorso, una commissione, un gesto, il lavaggio dei panni, il dono di un fiore. L’importante è suscitare l’introspezione del sé e la compenetrazione delle cose, toccando le corde sensibili della personalità di un essere umano.
Il carattere strettamente personale dell’illuminazione è descritto dall’espressione soku shin soku butsu, il Buddha è il proprio cuore. L’aspetto personale dell’illuminazione si comprende meglio da uno studio dei testi buddhisti, in particolare gli ultimi e più recenti come il Sutra del Loto e il Sutra della Ghirlanda, i quali ribadiscono che la natura di Buddha appartiene a tutti gli esseri viventi. Quindi tutti hanno davvero l’illuminazione, semplicemente non sanno di possederla. Fin qui si è detto qualcosa di più circoscritto circa l’illuminazione: è un’esperienza che tutti possiedono. Così ci sono le coordinate che permettono di individuare ciò di cui parliamo. L’ultima coordinata che Buddha ci fornisce è la purezza. La purezza si ottiene eliminando gli agenti tossici che inquinano la mente. Questi agenti tossici sono chiamati i tre veleni (san doku). Essi sono ira (ikari), desiderio (musabori) e ignoranza (oroka). Il buddhismo ha suggerito in epoche diverse soluzioni alternative ai tre veleni. Il buddhismo Hinayana suggeriva preferibilmente l’affrancamento dai tre veleni tramite le porte che conducono alla liberazione, ossia il riconoscimento del non sé, non desiderio, non forma. Questi insegnamenti ci dicono che non esistono forme permanenti , tutto è transitorio, anche il sé e il desiderio. Il buddhismo Mahayana più semplicemente suggerisce di trasformare i tre veleni. L’ira in forza vitale, il desiderio in compassione, e l’ignoranza in saggezza. Insieme alla purificazione dai tre veleni, il buddhismo pratica la visione e contemplazione della propria mente (kanjin). Infatti è importantissimo conoscere la propria mente per comprendere la natura delle illusioni e trasformare gli agenti tossici. Questa pratica avviene attraverso la meditazione.
In conclusione, lo scopo del buddhismo, e in particolare dello zen, è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio.
L’esperienza dell’illuminazione consiste nella consapevolezza del non dualismo fra soggetto e ambiente (esho funi), ossia nella compartecipazione nell’identità di individuo e universo. Questa consapevolezza porta al superamento di tutti quei fuorvianti dualismi che ostacolano la vita. Così si comprende il non dualismo di maestro e allievo (shitei funi), e soprattutto il non dualismo di corpo e mente (shikishin funi). Se il mondo è il contenuto della propria coscienza, ossia ciò che percepiamo e pensiamo, è anche vero che la coscienza è una creazione del mondo. L’ambiente ha formato e sviluppato l’individuo. Chi crea è contemporaneamente il creato e il creatore. Riconoscere questo dualismo nella sua autentica natura di identità significa possedere l’illuminazione (bodai).

Note

1. Per questo motivo i maestri zen dicono che l’insegnamento del buddhismo può avvenire soltanto da cuore a cuore (ishindenshin).
2. La meditazione silenziosa è detta in giapponese mokusho zen, la meditazione sulle parole è invece detta kanna zen.
3. Anche il Dalai Lama insiste sulla necessità della verifica nella pratica buddhista. La fede cieca è un flagello e pericolo per le religioni che divengono così intolleranti e fanatiche. Cfr. Dalai Lama, La compassione e la purezza, Rizzoli, Milano, 1995, pp.90-91.
4. Espedienti o mezzi, in sanscrito upaya, in giapponese hoben.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano,1992.
Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Guareschi, Fausto Taiten, Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, La Verità e il Luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", anno II, n. 4, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

Beat zen

Articolo sul beat zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Beat zen
La filosofia giapponese fra pop e new age
di Cristiano Martorella

6 febbraio 2003. La definizione di beat zen fu formulata da Alan Watts nel tentativo di chiarire la sua posizione rispetto al successo popolare che lo zen stava avendo in America negli anni ’50. Alan Watts introduceva una distinzione fra beat zen e square zen utilizzando una terminologia già esistente e di estrema attualità (1). Con square zen si indica lo zen istituzionalizzato delle scuole Soto e Rinzai, mentre con beat zen si definisce lo zen popolare e volgarizzato, spesso collegato a movimenti artistici. Le parole square (quadrato) e beat (fallito) provengono dal linguaggio hipster degli anni ’50. Square, il conformista, si opponeva a beat, alla gioventù bruciata che viveva nelle strade e nelle comunità artistiche. Alan Watts non si schiera a favore di un genere di zen contro l’altro, e con saggezza mostra quanto sia sconveniente creare una simile contrapposizione poiché lo zen è meno formale di quanto si creda. La gerarchia e l’istituzionalizzazione è avvenuta soltanto dopo un processo storico che ha assorbito lo zen nella società.

"Nel corso dei secoli, comunque il processo di rifiuto dell’insegnamento e il rispondere alle domande con altre domande è diventato sempre più formale. Sono sorti dei templi e degli istituti dove viene impartito un vero e proprio insegnamento e questo a sua volta ha creato problemi di proprietà, amministrazione e disciplina costringendo il buddhismo zen ad assumere la forma di una gerarchia di tipo tradizionale. Nell’Estremo Oriente questo fenomeno è continuato fino a divenire parte del paesaggio e alcuni dei suoi inconvenienti sono annullati dal fatto che sembra essere del tutto naturale. Non vi è nulla di “esotico o speciale” in questo fenomeno. Anche le cose organizzate possono crescere con naturalezza. Ma a me sembra che trapiantare questo stile zen in Occidente sarebbe una cosa del tutto artificiale." (2)

Alan Watts non intende favorire un genere di zen a discapito di un altro. Addirittura arriva a dire che beat zen e square zen possono completarsi a vicenda per dare vita a una forma di zen pura e vivace. Comunque, se si può giungere al satori (illuminazione) seguendo ambedue le vie, Watts coglie l’occasione per far notare gli errori dei seguaci di entrambe le scuole. Gli studiosi formali dello zen hanno la tendenza ad attribuire un valore eccessivo alle idee e ai concetti, studiando rigorosamente i testi e dimenticando che essi sono soltanto dei mezzi. Addirittura assumono un atteggiamento snob che rifiuta la spontaneità e la creatività. Perfino Suzuki Daisetsu fu considerato nelle università americane come un semplice divulgatore, piuttosto che uno studioso serio e originale. Ciò avvenne perché si dava troppa importanza alla sistematicità e al rigore scientifico. L’altro errore è costituito dall’attrattiva che le religioni esotiche esercitano sugli occidentali. Spesso si tratta di un interesse nato dall’insoddisfazione per le religioni monoteiste, però è una curiosità che rimane a un livello superficiale e immaturo, piuttosto confuso, qualcosa che ricorda le tendenze mistiche del movimento new age. Alan Watts cerca di mettere in evidenza, e a nostro giudizio vi riesce, le motivazioni che spingono ad abbandonare le religioni monoteistiche nel mondo moderno.

"L’universo giudaico-cristiano è un universo in cui il bisogno morale, l’ansia di essere nel giusto abbraccia e penetra ogni cosa. Dio, l’Assoluto stesso, è il bene opposto al male e così essere immorali o sbagliare significa sentirsi un esiliato non solo dalla società umana ma anche dall’esistenza stessa, dalla radice e dalla base della vita. Sbagliare suscita quindi un’angoscia metafisica e un senso di colpa - uno stato di dannazione eterna - del tutto sproporzionato al crimine commesso. Questa colpa metafisica è così insopportabile che infine sfocia nel rifiuto di Dio e delle sue leggi, che è proprio quello che è successo al movimento del secolarismo, del materialismo e del naturalismo moderni. La moralità assoluta distrugge profondamente la stessa moralità, perché le sanzioni che invoca contro il male sono eccessive. Non ci si cura il mal di testa tagliandosela. Il fascino dello zen, come quello di altre forme di filosofie orientali, è dato dal fatto che questo rivela, dietro al regno incalzante del bene e del male, una vasta regione di se stessi per la quale non è necessario sentirsi in colpa o fare recriminazioni, dove infine l’io non è distinto da Dio." (3)

Alan Watts suggerisce qualcosa di molto acuto per evitare l’errore appena descritto.

"Ma l’occidentale che è attratto dallo zen e che è in grado di capirlo profondamente deve avere un attributo indispensabile: deve capire la propria cultura in modo così completo da non venir più influenzato inconsciamente dalle sue premesse." (4)

Questa affermazione è condivisibile, e aggiungiamo che costituisce una convalida a quanto abbiamo sostenuto riguardo al concetto di specificità giapponese (5). La specificità giapponese può essere compresa soltanto se conosciamo bene la cultura occidentale, perché specificità e universalità sono unicamente le due facce della stessa medaglia, la realizzazione concreta di storia e cultura. Comprendere il processo universale della storia permette di distinguere l’autentica specificità delle differenti culture, altrimenti si resta a un livello astratto. Alan Watts sposta questo concetto all’ambito individuale. Ed è corretto procedere così. Bildung (formazione) della persona e disciplina zen coincidono secondo un modo un po’ riduttivo ma efficace d’intendere il buddhismo. Eppure c’è qualcosa di molto più sottile e sconvolgente nella pratica zen. Sekida Katsuki lo spiega attraverso la lezione della filosofia di Edmund Husserl.

"Husserl dice che l’io come persona, come una cosa nel mondo va eliminato attraverso la riduzione fenomenologica. L’io come una cosa nel mondo è in effetti l’attività abituale della coscienza, che è gravata da un confuso pensiero illusorio. Quello che Husserl dice può essere riassunto nell’asserzione che se si arresta l’attività della coscienza abituale, anche il confuso pensiero illusorio nell’esperienza personale, psicologica, individuale, scomparirà, e apparirà al suo posto la pura coscienza. Se questa interpretazione è corretta, allora possiamo dire soltanto che questo è esattamente quello che cercano di fare gli studenti di zen, quando siedono sui loro cuscini." (6)

La ricerca della pratica zen risiede nel tentativo di liberare la coscienza dai suoi condizionamenti. Anche Alan Watts è chiaro su questo punto.

"Per ragioni piuttosto diverse i giapponesi tendono a trovarsi a disagio nei confronti di se stessi tanto quanto gli occidentali, visto che possiedono un senso del rispetto umano acuto quasi quanto il nostro più metafisico senso del peccato. Questo si verificava soprattutto nella classe più sensibile allo zen, quella dei samurai. Ruth Benedict […] aveva perfettamente ragione quando diceva che l’attrazione che la casta dei samurai provava per lo zen derivava dal potere che questa dottrina aveva di liberare da un’autocoscienza estremamente imbarazzante, dovuta al tipo di educazione impartita ai giovani. Di questa autocoscienza fa parte quell’obbligo che i giapponesi sentono di competere con se stessi, un obbligo che riduce ogni arte e sapere a una maratona di autodisciplina. Anche se l’attrazione esercitata dallo zen consiste nella possibilità che esso offre di liberarsi da questa autocoscienza, la versione giapponese dello zen combatteva il fuoco con il fuoco, superando “l’io che osserva se stesso” con il portarlo a un’intensità tale da farlo esplodere." (7)

Lo zen giapponese è dunque “il superamento del superamento”, la filosofia che permette di giungere all’assoluto tramite il particolare portato all’eccesso. Queste considerazioni ci permettono di analizzare il valore dello zen dal punto di vista delle scienze sociali. Nonostante i severi e corretti rimproveri rivolti da Franco Ferrarotti (8) al movimento new age, ci sembra che si possa fornire un’ulteriore analisi non del tutto negativa.
Secondo Gianni Vattimo il pensiero occidentale moderno è superamento e fondazione (9). Queste due istanze si troverebbero nella logica dello sviluppo che sarebbe stata abbandonata dalla postmodernità. Le caratteristiche della postmodernità sarebbero la desecolarizzazione, la fine delle grandi narrazioni e la crisi dell’idea di progresso. La desecolarizzazione coincide con l’abbandono del pensiero positivista e il ritorno alle credenze spirituali, come appunto la new age. Eppure non corrisponde all’esperienza di queste religioni la rinuncia all’idea di superamento e progresso, anzi subisce un’accelerazione. L’influenza dello zen sposta il superamento al “superamento del superamento”. Una contraddizione soltanto apparente: il superamento del superamento è esso stesso superamento. Poiché lo zen non elimina il soggetto ma lo riunifica all’universo, eliminandolo soltanto come cosa isolata nel mondo, l’interpretazione qui presentata della postmodernità non è corretta. L’idea di superamento non è eliminata. Gianni Vattimo rimane ancora imprigionato nella logica occidentale che concepisce il superamento come eliminazione, una logica che Georg Hegel aveva indicato come fallace e aveva sostituito con la fenomenologia dello spirito.

Dunque il concetto di postmodernità è fuorviante per capire new age, cultura pop e beat zen. New age e beat zen non contrappongono modernità e antichità, piuttosto operano una sintesi. La contaminazione di moderno e antico non deve scandalizzare perché il criterio dello zen non pone al centro del sapere un dogma, al contrario apre il mondo alle infinite possibilità dell’esistenza. Se il movimento new age è criticabile per i molti difetti che lo caratterizzano, ciò non deve escludere che possa avere qualche influenza vantaggiosa, ad esempio l’avvicinamento, anche superficiale, alla filosofia orientale. Condannare la cultura popolare contemporanea è un comportamento snob tipico degli intellettuali che si atteggiano in modo saccente, ma anche esaltare la cultura pop in contrapposizione al passato o ad altre forme culturali è un comportamento esasperato e ingiustificato. Passato, presente e futuro non sono mai contrapposti nella cultura che essendo viva è capace di evolversi continuamente superando qualsiasi dicotomia. Perciò gli scritti di Alan Watts su beat zen e square zen sono un esempio di equilibrio e buon senso da seguire. C’è poi da sottolineare il fatto che la religione non è soltanto una questione fra dotti, ma riguarda una moltitudine di persone. Escludere l’aspetto popolare della religione significa eliminare il senso profondo della religione: creare un legame fra i membri di una comunità. L’etimologia della parola religione proviene dal latino relegere (raccogliere).

Note

1. Alan Watts discusse l’argomento del beat zen in alcuni saggi, e in particolare in Beat Zen, Square Zen e Zen pubblicato su “The Chicago Review” (estate 1958). Questi interventi sono stati raccolti in volume e tradotti in italiano: Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, traduzione di Piero Verni, Arcana Editrice, Milano, 1973.
2. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, traduzione di Piero Verni, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.61.
3. Ibidem, p.68.
4. Ibidem, p.68.
5. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia, Relazione al XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.
6. Cfr. Sekida, Katsuki, La pratica dello zen. Metodi e filosofia, Astrolabio, Roma, 1976, p.170. Per il riferimento alla riduzione fenomenologica si consulti: Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, traduzione di Enrico Filippini e Giulio Alliney, Einaudi, Torino, 1965.
7. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.63.
8. Ferrarotti, Franco, La verità? È altrove. All’insegna della new age, Donzelli Editore, Roma, 1999.
9. Cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, pp.10-11.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

Hipster e zen

Articolo sul rapporto fra hipster e buddhismo zen pubblicato dal sito Nipponico.com.
Hipster e influenze zen
Le tendenze pop fra arte e religione
di Cristiano Martorella

24 febbraio 2003. Negli anni '50 e '60 del secolo scorso vi fu un crescente e vivace interesse per la religione orientale in Europa e America. Oltre all'apprezzamento crescente dell'induismo, manifestato anche dal complesso pop dei Beatles con un viaggio in India e la produzione di un disco da parte di George Harrison per gli Hare Krishna, vi fu l'interesse per un'altra corrente religiosa, ossia lo zen giapponese. Gli artefici del boom dello zen in Occidente furono Suzuki Daisetsu in America e Deshimaru Taisen in Europa, i quali con i loro viaggi, le conferenze e le pubblicazioni fornirono un'esposizione non superficiale dello zen. Questo interesse non si limitò agli ambienti accademici, ma esplose in particolare nelle tendenze artistiche del periodo. Non è affatto indebita l'associazione fra lo zen e le arti poiché era già presente nella matrice originaria giapponese (1). L'arte è anche una componente essenziale del movimento hipster (in giapponese hippusuta) che rifiuta la american way of life. Nati nelle comunità artistiche della North Beach di San Francisco e del Village di New York, gli hipster adottarono lo zen come giustificazione del loro disimpegno sociale. Infatti lo zen tradizionale criticava l'artificiosità della società esaltando il potere di liberazione dell'individuo attraverso l'autocoscienza. Gli hipster si ribellarono al sistema attraverso un totale disimpegno, non cercando di cambiare l'ordine sociale, ma escludendosi. Un atteggiamento radicale e perciò maggiormente ribelle.
Nell'arte zen gli hipster trovarono una legittimazione della loro concezione estetica della vita e della loro poetica spontanea e informale. Viceversa hipster, beatnik e hippy furono anche un laboratorio sperimentale a cui fecero riferimento le arti d'avanguardia dal 1947, periodo di nascita dell'action painting di Jackson Pollock, fino agli anni '60 e '70 e al consolidamento dell'esperienza dei gruppi Fluxus e Gutai. Sarebbe inesatto ritenere conclusa la parabola di queste correnti artistiche che sono ancora influenti. Piuttosto dagli anni '80 si è assistito a un riconoscimento dell'arte ribelle che ha coinciso con un inserimento nei musei e uno studio accademico, il quale snatura il carattere trasgressivo e contestatario. Questa osservazione vale anche per l'utilizzo dell'espressione subcultura che si rivela utile come etichetta sociologica, ma fuorviante per la comprensione dei reali fenomeni storici. Come si è detto in precedenza, dagli anni '80 in poi si è assistito a una normalizzazione dell'arte pop che divenne inglobata e divorata dal marketing delle aziende. L'industria della cultura nata con la società del consumo di massa non ha risparmiato le avanguardie, trasformando in merce anche i fenomeni di contestazione più radicali. Però non si può nemmeno affermare che le avanguardie siano le vittime inermi della omologazione. Infatti sono state le avanguardie, e i gruppi artistici sperimentali come gli hipster, a sostenere uno spirito egualitario e una concezione estetizzante della vita che condannava l'arte elitaria (2). Essi stessi hanno contribuito a formare una cultura di massa e a far uscire l'arte dai suoi confini tradizionali. Inoltre l'uso dei mass media distribuisce una visione generale estetizzata della vita. Piuttosto che informazione i mass media producono consenso e un sentire comune. Eppure questa concezione estetizzante era il proponimento degli hipster. E questo proposito non si è fermato qui.
La cultura di massa utilizza ampiamente l'arte pop nata spontaneamente e trasgressivamente. Perciò è fuorviante contrapporre cultura e subcultura. La cultura così come intesa nel XIX secolo non esiste più. Se dovessimo contrapporre cultura di massa e subcultura sarebbe una contraddizione in termini. Non può esistere una cultura di massa alla quale si esclude una cultura di gruppo. La cultura di massa arriva ovunque, specialmente nell'attuale mondo globalizzato, e ce ne accorgiamo studiando le subculture. Infatti esse si appoggiano sul potere pervasivo dei mass media (radio, televisione, internet, etc.). Se parliamo di subculture è esclusivamente per motivi di carattere accademico. Infatti è molto più comodo restringere un argomento di studio etichettandolo invece di stabilire i rapporti fra i fenomeni culturali più complessi. Al contrario la cultura pop nega una contrapposizione fra cultura alta e cultura di base, a favore di un'arte egualitaria come fatto estetico integrale. Chi continua a utilizzare la terminologia della subcultura si rivela decisamente conservatore riproponendo la distinzione fra cultura alta e bassa. Ed è evidente nello stesso termine subcultura (qualcosa che sta sotto).
Per questi motivi non è indebito studiare l'influenza che lo zen tradizionale ebbe sui movimenti popolari occidentali in tutte le sue forme. Alan Watts fu il primo occidentale a mettere in risalto quanto fosse insensato contrapporre lo zen tradizionale studiato nelle università allo zen eclettico e folcloristico degli hipster (3). Lo zen non è una disciplina formale anche se ha assunto degli aspetti istituzionali. La pratica dello zen è la ricerca del risveglio spirituale, la liberazione (gedatsu) dalle convenzioni che non permettono d'avere la conoscenza della natura autentica dell'universo. Come ciò accada è indifferente, e i maestri zen sono consapevoli di quanto l'illuminazione (satori) sia un fatto individuale. Un aspetto rimarcato dal detto "se incontri Buddha uccidilo", una affermazione che va intesa come il ridimensionamento dell'insegnamento tramite un maestro (4). Uccidere Buddha quando lo si incontra significa distruggere la speranza che qualcuno all'infuori di noi possa essere il nostro padrone. Uccidere il maestro era un'espressione già usata da Rinzai Gigen nel IX secolo.
Nel 1959 Umberto Eco riprese e commentò il saggio di Alan Watts criticando l'idea che potesse esserci un'autentica influenza dello zen nelle mode culturali occidentali (5). Secondo Eco lo zen era piuttosto una semplice giustificazione degli hipster al proprio individualismo anarchico. Autori come Jack Kerouac adotterebbero i modi esteriori di un conformismo orientale per legittimare attraverso lo zen le intemperanze e i vagabondaggi (6). La tesi di Umberto Eco non ci sembra però sufficiente per spiegare il successo dello zen in Occidente. Liquidare in questo modo la questione, affrontandone soltanto un aspetto, non è vantaggioso per lo studioso. Dal punto di vista delle scienze sociali l'interpretazione dei fenomeni deve avvenire senza un preventivo giudizio di merito. Comunque sia il comportamento umano, va prima considerato in relazione ai valori apportati, e in seguito giudicato. Inoltre qui permane una distinzione fra cultura alta e bassa che ha poca efficacia nella società dei consumi di massa. Come afferma Alessandro Baricco, anche Beethoven è un brand (7). Piuttosto ci sono molti aspetti dello zen che sfuggono ancora. Alan Watts mette in evidenza nel suo saggio già citato, come lo zen nipponico sia un movimento di reazione e contestazione all'eccessivo formalismo della società giapponese. Egli fa notare che l'istituzionalizzazione dello zen è stato un processo storico (8) che ha comportato una formalizzazione esteriore. Ma non è l'aspetto esteriore che ci può spiegare il valore dello zen. Gli hipster colgono nella tradizione orientale il rifiuto della vita mondana, e con ciò non si sbagliano.
In Oriente è sempre esistito uno spazio sociale autonomo riservato alla spiritualità. In India gli yogin che si rifacevano agli insegnamenti di Patanjali, sostenevano che il pensiero vincolasse a una concezione erronea della realtà da cui si poteva uscire attraverso esercizi fisici (asana) e psichici (dhyana). In Cina e Giappone i buddhisti riconobbero il carattere illusorio della realtà e suggerirono d'abbandonare l'attaccamento (upadana) alle cose. Buddha aveva accettato nell'ordine religioso (sangha) i membri di qualsiasi casta, minando i fondamenti della gerarchia sociale. Nell'Occidente cristiano, invece, la chiesa riconosceva ancora un forte potere ai ceti elevati. Il regnante riceveva l'incontestabile investitura da Dio (viceversa in Cina, ad esempio, il mandato celeste poteva essergli ritirato dalle divinità). Quando si avanzò la proposta di separare il potere religioso e politico avvenne appunto perché la sovrapposizione era divenuta inaccettabile portando a contrasti laceranti. Ma lo spazio sociale riservato alla religione era stato inevitabilmente occupato dalla politica. Anche in Oriente la politica ha invaso e si è appropriata della religione per fini utilitaristici. Però le religioni politeiste e panteiste sono meno vulnerabili alla strumentalizzazione politica. E lo zen è radicalmente avverso alle autorità, ai dogmi, alle consuetudini che irrigidiscono la natura umana.
Gli hipster ripresero lo zen e le sue forme artistiche perché esprimeva bene questo atteggiamento. Il modo in cui abbiano realizzato questa ripresa sarà pure questione della filologia e dell'accademia, però dal punto di vista sociologico è del tutto indifferente l'aspetto esteriore dell'agire sociale rispetto al risultato. La concezione estetica della vita non si è fermata ai movimenti hipster, ma ha saturato l'intera società contemporanea. Non stiamo trattando più quei fenomeni che appartengono a una subcultura, piuttosto siamo davanti a ciò che è costitutivo della cultura contemporanea. Per constatare ciò è sufficiente accendere un televisore e sintonizzarsi su MTV. Non è più lecito parlare di movimenti di contestazione quando essi rappresentano la maggioranza dei gusti e delle tendenze. Piuttosto si dovrebbe riflettere sul contrasto esistente fra il potere politico e i cittadini che esso dovrebbe rappresentare in quelle che sono considerate democrazie liberali. La religione è un'esigenza esistenziale che non può essere regolamentata dal potere amministrativo con criteri esclusivamente burocratici e formali. Bisogna garantire soprattutto uno spazio sociale per la religione e che sia tenuta in considerazione la sua capacità aggregativa.

Note

1. Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
2. Sulla fine dell'arte convenzionale, cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1991, pp. 59-72.
3. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996.
4. Kopp, Sheldon, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Editrice Astrolabio, Roma, 1975.
5. Lo Zen e l'Occidente, pubblicato nel 1959, venne incluso in Opera aperta, ribadendo in nota l'atteggiamento critico e il dissenso dal trapianto dello zen come forma artistica in Occidente; cfr. Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Il saggio di Watts era apparso l'anno precedente; cfr. Watts, Alan, Beat Zen, Square Zen and Zen, in "Chicago Review", Summer 1958.
6. L'arte contemporanea è profondamente influenzata dallo zen e dalla sua estetica. Ricordiamo due casi emblematici: il compositore statunitense John Cage (1912-1992) e il pittore francese Yves Klein (1928-1962).
7. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 52-54.
8. Dovrebbe essere ormai risaputo come i movimenti si possano trasformare in istituzioni grazie alla lezione del sociologo Alberoni. Cfr. Alberoni, Francesco, Movimento e istituzione. Teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1981.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.
Yamamoto, Fumio, Nihon masu komyunikeishon shi, Tokai daigaku shuppankai, Tokyo, 1981.
Zecchi, Stefano, Sulla fine del moderno, in "Alfabeta", n. 73, 1985.

La causalità nel buddhismo

Articolo sul concetto di causalità nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Inga, la mistica della legge inesistente
Il rapporto causale secondo il buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Una credenza molto equivocata è sostenuta dalla maggioranza dei buddhisti riguardo al karma e il rapporto causa ed effetto (in giapponese inga to kekka). Si pensa, in maniera ingannevole, che ogni buona azione abbia una ricompensa e ogni malefatta riceva una punizione. Così si attribuisce alle disgrazie e sventure un rapporto con le azioni precedenti, non soltanto in questa vita ma anche nelle esistenze anteriori secondo la dottrina della metempsicosi. Questo sistema delle retribuzioni di benefici e punizioni viene chiamato genericamente karma, dal sanscrito karman che significa semplicemente azione. In realtà il Buddha storico, Shakyamuni, non ha mai attribuito un senso così meccanico e deterministico al karma, anzi ha sempre sostenuto il carattere ingannevole e illusorio del rapporto causale.
L'equivoco dei buddhisti ha conseguenze drammatiche e nefaste nella pratica. Infatti la credenza fallace che ogni azione sia ricompensata o punita porta ad una attesa spasmodica per qualcosa che non accadrà. Constatato che in questa vita ciò non avviene, i buddhisti si consolano e si ingannano sperando nell'esistenza successiva. Questo atteggiamento genera frustrazione e ansia, appunto ciò che Buddha voleva superare. Buddha aveva anche avvisato insistentemente i suoi seguaci dal pericolo costituito dalla pratica religiosa seguita in modo non corretto. La dottrina buddhista mal interpretata produce danno e dolore così come un serpente afferrato per la coda si rivolge contro chi lo tiene e lo morde (1).
Nonostante i tanti equivoci, molti maestri buddhisti indicano correttamente la spiegazione che Buddha ha fornito della causalità. Buddha non ammette una causalità in senso stretto. La causa esige un rapporto diretto con l'effetto. Ed è proprio questa dipendenza unilaterale che viene criticata da Buddha stesso. E' soltanto sotto condizioni molteplici, praticamente infinite, che qualcosa avviene. Ciò che appare, ogni fenomeno, non si origina da sé né da un altro sé, non si origina neppure a caso. In realtà non è prodotto ma si origina in interdipendenza. Non c'è sostanza che si trasforma da sé (produzione da sé). Non c'è produzione dal nulla di un dio o di un uomo (produzione da altro). Tali idee sono soltanto il prodotto di un pensiero antropocentrico che considera le cause al lavoro alla stregua di un ceramista che preso un pezzo di argilla lo trasforma in un vaso. Lo stesso rapporto stretto di dipendenza unilaterale tra causa ed effetto viene disciolto in una molteplicità di condizioni complesse.
Un altro equivoco fondamentale è costituito dall'affermazione della coincidenza di causa ed effetto. Generalmente i buddhisti interpretano la coincidenza di causa ed effetto come il potere miracoloso di Buddha nell'esaudire le preghiere e i desideri. Invece non è affatto così.
In realtà causa ed effetto sono coincidenti nella consapevolezza (2). Attraverso la consapevolezza la causa viene dissolta nell'effetto perché si comprende e osserva la non-sostanzialità del rapporto causale che è un fantasma della nostra mente (3). Non esiste una causa singola ma cause infinite quindi incommensurabili e non determinabili.

Note

1. L'esempio del serpente è dello stesso Buddha. La dottrina buddhista mal compresa è dannosa e nociva come il morso di un serpente che è afferrato senza attenzione. Afferrare male il serpente significa afferrare male la dottrina di Buddha, cioè non comprenderla affatto nel suo significato autentico. Cfr. Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995, p. 128.
2. Cfr. Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia Edizioni, Milano, 1998, p. 8.
3. Circa il principio di non-sostanzialità dei fenomeni si legga la dottrina del vuoto (ku). Cfr. Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006, p. 15.

Bibliografia

Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995.
Gombrich, Richard, Theravada Buddhism, Routledge, London, 2005.
Ikeda, Daisaku, The Living Buddha, Weatherhill, New York, 1976.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia, Milano, 1998.
Pasqualotto, Giangiorgio, Il buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
Puech, Henri Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

Illusione e buddhismo

Articolo sull'inganno delle passioni secondo il buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Bonno, l'inganno delle passioni
Scopi e trappole del buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Il buddhismo è l'insegnamento esposto dal saggio della famiglia Shakya, Siddhartha (563-483 a.C.) detto il Buddha (1). La pratica e l'applicazione dell'insegnamento buddhista hanno lo scopo di liberare gli esseri umani dal giogo del dolore e della sofferenza, e quindi sviluppare pienamente le loro vite. Però lo stesso Buddha predisse che col tempo il suo insegnamento sarebbe stato corrotto, frainteso e degenerato (2). Questa profezia trova conferma in un'analisi puntuale delle pratiche del buddhismo nei paesi più lontani dall'originario insegnamento, ossia Cina e Giappone. Quest'ultimo paese conobbe anche un vivace scontro, spesso violento e feroce, fra i riformatori del buddhismo.Tuttavia è stato proprio il conflitto delle passioni a rendere il buddhismo giapponese (3) più attivo e interessante, nonostante il travisamento dell'insegnamento originario. Ciò spiega anche il successo in Europa e negli Stati Uniti delle sette giapponesi in tutte le loro forme (comunità di monaci, associazioni di laici, centri di studio accademici, etc.). Per comprendere adeguatamente il buddhismo giapponese è necessario penetrare criticamente nei princìpi che regolano le pratiche buddhiste.
Il termine giapponese bonno indica le passioni e le illusioni che dominano la nostra vita. La parola bonno traduce il vocabolo sanscrito klesa che significa appunto passione ingannevole, illusione che avvince l'animo umano. Il termine bonno è composto da bon (letto anche come wazurawashii significa complesso, problematico, difficoltoso) e no (nella forma verbale nayamu significa soffrire, tormentarsi, angosciarsi). Da un punto strettamente psicologico è chiaro il senso di questa teoria. Le passioni ed emozioni forti sono capaci di provocare una distorsione cognitiva che altera le percezioni della realtà. Viceversa le emozioni sono necessarie per creare le motivazioni, e dunque non possono essere eliminate completamente. Ciò che propone Buddha è una moderazione ed una consapevolezza che rende manifesto ogni aspetto del reale piuttosto che le false aspettative. La questione della distorsione cognitiva (4) è cruciale sia dal punto di vista psicologico, sia nel contesto della corretta pratica religiosa. Il buddhismo non nega la realtà del mondo, ma propone un migliore rapporto con essa, più autentico e verace. Il buddhismo è nichilismo nel senso che distrugge e annienta le illusioni, svelando la verità dell'essere.
La questione della distorsione cognitiva è ripresa anche in un altro insegnamento buddhista, presente in quasi tutte le sette giapponesi: i tre veleni (sandoku). I tre veleni che inquinano l'animo umano sono il desiderio (musabori), la collera (ikari) e l'ignoranza (oroka). L'affrancamento dai tre veleni avviene tramite le tre porte che conducono alla liberazione: non desiderio, non sé, non forma. Praticamente nell'esercizio di trasformare (hendoku iyaku) i tre veleni. Si trasforma così il desiderio in compassione, la collera in forza vitale, l'ignoranza in saggezza. Purtroppo i tre veleni sono capaci di infiltrarsi dappertutto e assumere aspetti insospettabili. La stessa pratica buddhista è contaminata dai tre veleni, come dimostrano i numerosi tradimenti e scismi, e Buddha spronava sempre gli adepti a non abbassare la guardia nei confronti delle insidie dei falsi maestri e delle dottrine nocive. Chi usa il buddhismo per i suoi meschini scopi personali reca grave danno a sé e agli altri. Lo scopo del buddhismo è la liberazione ed è esattamente il contrario dell'asservimento autoritario praticato in molte sette, scuole e associazioni che ne usano il nome.
Per questo motivo, molte tecniche mistiche sono nocive piuttosto che benefiche. L'adorazione di un oggetto di culto (5), il gohonzon, è una pratica contraria e opposta all'insegnamento di Siddhartha. Chi venera un oggetto di culto non ne è mai libero, ma ne è lo schiavo. Ci si aspetta dall'oggetto di culto miracoli o interventi divini, benefici e protezione. Però quello che si ottiene è l'alimentazione e la diffusione dei tre veleni (sandoku). La dinamica psicologica di questo processo è chiara ed evidente. Si crede ciecamente nei poteri miracolosi di un oggetto di culto venerato come un idolo. Ciò avviene per ignoranza, superstizione, stupidità (oroka). Si esprime il desiderio (musabori) e si prova rabbia e collera (ikari) perché non esaudito. L'oggetto di culto diventa così lo strumento di tortura che produce i tre veleni in questa sequenza: l'ignoranza, il desiderio e la collera. In conclusione si ottiene l'effetto contrario a quanto auspicato. Paradossalmente chi crede di praticare il buddhismo anche sbagliando finisce inevitabilmente per dimostrare la pericolosità delle passioni che ingannano la mente, ossia la correttezza dell'analisi del Buddha storico, Siddhartha.

Note

1. Il titolo Buddha significa "risvegliato" o "illuminato", ossia colui che si è liberato dell'ignoranza e conosce la verità circa l'esistenza. Siddhartha (563-483 a.C.) nacque a Kapilavastu, località attualmente in Nepal, ma all'epoca regno indipendente di tipo repubblicano gentilizio. Secondo la cronologia più attendibile sarebbe nato nel 563 a.C. e morto nel 463 a.C. circa. Tuttavia altre datazioni spostano le coordinate temporali in maniera rilevante. Secondo la cronologia singalese sarebbero 663-543 a.C. circa, le date secondo la tradizione nell'India settentrionale sarebbero 463-383 a.C. circa.
2. In giapponese l'epoca in cui l'insegnamento di Buddha è divenuto incomprensibile è chiamato mappo. Attualmente l'epoca moderna in cui viviamo sarebbe nel periodo del mappo.
3. Le scuole giapponesi più importanti sono Hosso, Kegon, Tendai, Shingon, Rinzai, Soto, Obaku, Ritsu, Nichiren e Jodo.
4. Le analisi più interessanti sulla distorsione cognitiva sono state pubblicate da Jon Elster. Cfr. Elster, Jon, Più tristi ma più saggi? Razionalità ed emozioni, Anabasi, Milano, 1994. Si veda anche il volume Uva acerba. Cfr. Elster, Jon, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Feltrinelli, Milano, 1989.
5. L'oggetto di culto, in giapponese gohonzon, è presente in molte sette buddhiste. Nella setta della Terra Pura (Jodo) può essere rappresentato da statue di Amida o un'altra cosa che lo ricordasse, mentre per la setta di Nichiren è un mandala costituito da un rotolo con l'iscrizione dei nomi di divinità sovrannaturali e il titolo del Sutra del Loto. Nelle case il gohonzon viene conservato in un altare domestico chiamato butsudan. Al contrario di queste usanze, Bodhidharma proibiva l'uso di oggetti di culto, perciò le sette zen giapponesi ne sono privi.

Bibliografia

Botto, Oscar, Buddha, Mondadori, Milano, 1985.
Conze, Edward, Scritture buddhiste, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973.
Conze, Edward, Breve storia del Buddhismo, Rizzoli, Milano, 1985.
Coomaraswami, Ananda, Vita di Buddha, SE, Milano, 2000.
Filippani Ronconi, Pio, Il buddhismo, Newton Compton, Roma, 1994.
Filippani Ronconi, Pio, Buddha. Aforismi e discorsi, Newton Compton, Roma, 1994.
Filippani Ronconi, Pio, Canone buddhista, UTET, Torino, 1976.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", anno XX, n. 61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Oldenberg, Hermann, Budda. La vita, gli insegnamenti e il retaggio dell'illuminato, TEA, Milano, 1998.
Puech, Henri-Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Puech, Henri-Charles, Le religioni dell'Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari, 1988.

La filosofia della pace

Articolo sulla filosofia giapponese della pace pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Heiwa.

Heiwa. La filosofia giapponese della pace
di Cristiano Martorella

6 ottobre 2002. Heiwa in giapponese significa pace. Il suo contrario è la guerra. Ma che cos’è la guerra? La guerra sembra la naturale condizione dell’uomo e numerosi etologi hanno cercato di confermare questa opinione con le loro ricerche (1). Eppure non si tratta affatto di una condizione biologica bensì sociale. La guerra degli umani non si riduce a una istintualità animale, ma smuove un’organizzazione sociale e tecnologica caratterizzata da un cinismo e spietatezza incommensurabili. La guerra caratterizza l’uomo a tal punto che i paragoni sostenuti dagli etologi sembrano ridicoli motti di spirito. Topi e formiche sono stati invocati a testimonianza della tesi che vorrebbe spiegare la guerra con basi biologiche. Purtroppo nessuna specie animale ha mai raggiunto le vette dell’umanità nell’esecuzione dello sterminio di massa. Il salto qualitativo operato dall’uomo è tale che ignorarlo significa fingere nel modo più impudente. Accanto alla spiegazione biologica della guerra, ha continuato a ricevere consensi la spiegazione economica che interpreta i conflitti come esigenze drastiche del mercato (2). Se un paese non è nostro cliente bisogna invaderlo e costringerlo con la forza. Ci auguriamo che questa logica non passi dalla macroeconomia alla microeconomia.
Queste spiegazioni, sotto alcuni aspetti falsamente raziocinanti, rivelano una serie di incoerenze che tentano di nascondere la responsabilità umana della guerra. Inoltre si tralasciano i cinici vantaggi (non soltanto economici) del conflitto. Perciò è utile segnare alcuni punti:

1) La guerra è un atto volontario;
2) La guerra è facile da avviare;
3) La responsabilità della guerra può essere attribuita agli altri (il nemico);
4) La guerra crea coesione interna (coesione sociale);
5) La guerra sospende molte regole da rispettare (non rubare, non uccidere, non stuprare, eccetera).

Insomma, perché bisogna fingere che non esistano questi motivi ben utili all’esercizio della guerra? Il sotterfugio è rivelato ai punti 1 e 2. La guerra non è inevitabile, piuttosto è un atto volontario estremamente facile da avviare. I punti 3 e 5 sono comodi per nascondere nella formalità gli squilibri della psiche umana che ancora non tollera le regole della convivenza civile perché costituite su basi ipocrite e artificiali. La guerra è la più grande occasione di sfogo a qualsiasi pulsione aggressiva, ma è anche uno strumento politico. Ed è questo miscuglio di burocrazia e organizzazione con tensione ed eccitazione a costituire la natura autentica della guerra. In conclusione, la guerra è la forma burocratica e politica (3) di un conflitto e un’incoerenza interiore dell’umanità. Il buddhismo propone perciò come soluzione un miglioramento spirituale da applicare all’individuo. Bisogna intervenire sulla persona per ottenere un concreto e durevole cambiamento sociale.

L’insieme di dottrine eterogenee a sostegno di questa tesi è ciò che noi chiamiamo “la filosofia giapponese della pace”. Non è paradossale, anzi ne è l’origine, che questa filosofia nasca nel paese che ha vissuto la circostanza storica della costituzione della nobile casta di guerrieri (bushi) feroci e determinati, e peggiore, il meschino militarismo del Novecento. Chi ha conosciuto le aberrazioni della guerra desidera ardentemente che esse rimangano un ricordo del passato. Purtroppo al momento attuale non è così.
Sicuramente è stato un errore non capire la necessità dell’educazione alla pace. L’insegnamento ha peccato enormemente nel ritenere trascurabile ciò che sembrava già acquisito. E qui ritorna il punto su cui insiste il buddhismo, e particolarmente la Soka Gakkai. La pace deve essere un valore da trasmettere e inserire nella formazione dell’individuo. Così si esprime Ikeda Daisaku che ricorda l’insegnamento di Toda Josei.

"Toda osservò: I sistemi di governo e le istituzioni sociali non furono create per competere e lottare tra loro. Furono concepite e adottate per accrescere il benessere dell’umanità. […] Quando la filosofia e la religione cadono nell’errore e nel disordine, significa che la saggezza del popolo si è appannata. Secondo il principio della vera entità di tutti i fenomeni e dell’unità della vita e del suo ambiente, ciò determina caos e disarmonia nella vita creando disordine e contrasti nell’ambiente, ovvero nella società e nella nazione." (4)

Ikeda Daisaku insiste poi sulla necessità di fondare una nuova filosofia, una filosofia universale della pace.

"Abbiamo assistito alla caduta del comunismo in un’epoca già caratterizzata da una dilagante assenza di filosofia. Vediamo che ovunque […] dai paesi del terzo mondo in lotta contro la povertà alle nazioni industrializzate con tutti i loro problemi, in breve in tutto il mondo contemporaneo che colloca il rendimento economico al di sopra di tutto, il genere umano sente la necessità di una filosofia nuova ed efficace. La gente avverte un vuoto spirituale ed è alla ricerca di qualcosa che lo colmi, qualcosa che possa ridare energia e speranza a un’esistenza sempre più fragile e mortificata. "(5)

La filosofia giapponese della pace fonda i suoi princìpi sull’insegnamento del buddhismo. Toda Josei aveva indicato l’esigenza che il buddhismo non fosse limitato al campo dottrinale della religione, ma venisse applicato concretamente estendendo la sua influenza nella sfera sociale. Poiché il buddhismo professa un cambiamento universale partendo dal cambiamento del singolo individuo, è tramite l’educazione che si può pervenire al più alto dei risultati. Ed è ciò che questi autori chiamano “rivoluzione umana” (ningen kakumei).

"Una grande rivoluzione nel carattere di un solo uomo permetterà di realizzare un cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità." (6)

Questa filosofia unisce la prassi e la teoria essendo qualcosa che si pone al di sopra della speculazione dottrinale.

“La filosofia della vita descritta da Toda non è frutto di una speculazione teoretica, né frutto di ripetute analisi e sintesi razionali e scientifiche. Allo stesso tempo non è in contraddizione con la scienza e la ragione. Egli la estrasse dalle profondità del Sutra del Loto impegnando ogni energia nell’accanita ricerca della verità. La filosofia di Toda rappresenta la saggezza del Sutra del Loto: non ci informa soltanto sulla natura della vita, ma ha il potere di cambiare il nostro modo di pensare, di indurre nella nostra quotidianità un senso di speranza, di disporci all’azione. E’ una filosofia pragmatica che fa scaturire la nostra forza vitale." (7)

Quando si introduce il termine “vita” in una discussione filosofica, si rischia sempre che esso venga frainteso. I filosofi giapponesi intendono la vita come qualcosa che non possa essere riassunto da un’elaborazione intellettuale, qualcosa che non è riducibile a un concetto. La vita è irriducibile, essa non è riducibile a qualsiasi altro concetto. E come fenomeno non è riducibile a nessuna entità trascendentale o spirituale. L’impossibilità di ricondurre la vita e la natura a uno scopo era stata evidenziata da Immauel Kant nella Critica del giudizio.

"Della finalità esterna delle cose della natura abbiamo detto avanti che essa non basta ad autorizzarci a considerare queste cose come fini della natura per spiegare la loro esistenza, e ad usare i loro effetti, accidentalmente finali rispetto all’idea, come fondamenti della loro esistenza secondo il principio delle cause finali." (8)

Il carattere essenzialmente libero e non finalistico della vita è dunque riconosciuto anche da parte della filosofia occidentale. Ma l’umanesimo professato dalla filosofia giapponese, in cosa si differenzia dall’umanesimo europeo? Saito Katsuji sembra fornirci una risposta netta e precisa.

"Il termine “umanesimo cosmico” sottolinea la differenza rispetto alla visione antropocentrica finora dominante, secondo cui tutte le altre forme di vita diverse dalla nostra possono essere sacrificate in nome degli esseri umani." (9)

Insomma, un umanesimo profondamente diverso dall’umanesimo europeo. Questa diversità sembra superare quelle difficoltà politiche e ideologiche che alcuni autori vicini ai movimenti no-global hanno messo in luce. Ci riferiamo in particolare a Michael Hardt e Antonio Negri che hanno cercato di riscrivere la storia mondiale criticando il concetto di modernità (10). L’umanesimo giapponese è un umanesimo privo di ideologia e molto pragmatico. Esso assomiglia all’approccio che lo scrittore Alessandro Baricco ha mostrato occupandosi dei problemi della globalizzazione.

"Le cose sono più complicate di quanto sembrino. La rassicurante prospettiva di uno scontro frontale, buoni contro cattivi, è un’astrazione teorica, non c’entra col mondo reale, e serve solo a motivare i soldatini di un esercito obsoleto. […] Sto cercando di suggerire che sono problemi veri di cui però sappiamo ancora poco, perché abbiamo studiato molto le scarpe e i film ma non abbiamo studiato a sufficienza noi stessi: conosciamo tutti i segreti delle multinazionali, ma non abbiamo un’idea chiara dell’uomo che sta di fronte a loro." (11)

Ecco che cos’è l’umanesimo del XXI secolo: la riscoperta di un soggetto della storia che tendiamo a dimenticare. Ma l’umanesimo giapponese (o umanesimo cosmico) è anche un superamento del dualismo uomo/natura poiché viene recepito l’insegnamento della filosofia orientale.
La filosofia giapponese del Novecento ha contribuito notevolmente alla considerazione della pace come meta prioritaria da raggiungere. Mentre i politici sceglievano lo strumento delle armi per imporre con la forza un equilibrio e una pace unilaterale, molti studiosi si interrogavano sulle possibilità che la filosofia poteva offrire alla prospettiva pacifista. Tanabe Hajime raggiunse i risultati più ragguardevoli. Egli teorizzò una “filosofia che non è filosofia” (tetsugaku naranu tetsugaku). Tanabe intendeva riconoscere i limiti della ragione ponendo l’esistenza umana al di sopra della speculazione e del calcolo che è capace di giustificare ogni crimine. Dunque prospetta una autonegazione della filosofia ricorrendo al principio buddhista del nulla (mu). Questa negazione della filosofia non è una negazione in senso distruttivo, ma una rinascita (12). Così Tanabe Hajime si rifà all’insegnamento del maestro buddhista Shinran (1173-1262) e alla nozione di tariki (il potere salvifico di Buddha attraverso gli sforzi comuni dell’umanità).
In conclusione, la filosofia giapponese è un’autocritica alla filosofia medesima e un’apertura alla diversità. La novità della filosofia giapponese consiste appunto in questa attenzione nei confronti della pace (attenzione altrove mancata).

Note

1. Queste interpretazioni sono state sostenute soprattutto in base alle considerazioni delle opere di Konrad Lorenz. Cfr. Lorenz, Konrad, Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano, 1969. Durissima la critica di Schmidbauer che accusa di “aspetti ideologici occulti” le spiegazioni biologiche dei fenomeni sociali. Cfr. Schmidbauer, Wolfgang,Uomo e natura. Anti-Lorenz, Laterza, Roma-Bari, 1978. Anche Fromm condanna gli eccessi di questi etologi in un classico sull’argomento: Cfr. Fromm, Erich, Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondadori, Milano, 1975.
2. Karl Marx è stato il sostenitore più convincente e attendibile di queste spiegazione. Il periodo di espansione coloniale in cui viveva Marx aveva sicuramente una corrispondenza con quanto affermato. Ma il modello marxiano è strettamente storico (come sostenuto dal medesimo autore) e non può essere considerato universalmente. Cfr. Marx, Karl, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1950; Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1957; Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974.
3. L’idea diffusa che la guerra accompagni la vita dell’uomo è falsa. Fra molti popoli primitivi la guerra è assente (questo è il caso degli eschimesi o inuit). La guerra progredisce e diviene pervasiva con l’espandersi della politica. Karl von Clausewitz affermò che la guerra “è una continuazione della politica con altri mezzi”. L’esperto Clausewitz ha perfettamente ragione. La guerra è una forma della politica. Egli è decisamente chiaro su questo versante. “Affermiamo dunque che la guerra non rientra nel campo delle arti e delle scienze, ma in quello della vita sociale. […] Più che a qualunque arte è paragonabile al commercio che è anche un conflitto di interessi, ma più vicina ancora le sta la politica”. Cfr. Clausewitz, Karl, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970. Come lettura critica si possono consultare parecchi volumi di orientamento diverso: Jean, Carlo, Il pensiero strategico, Franco Angeli, Milano, 1985; Bouthoul, Gaston, Le guerre, Longanesi, Milano, 1951; Stamp, Gerd, Clausewitz nell’era atomica, Longanesi, Milano, 1966; Aron, Raymond, Penser la guerre, Clausewitz, Gallimard, Paris, 1976.
4. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.134.
5. Ibidem, p.1.
6. Ibidem, p.142.
7. Ibidem, p.21.
8. Cfr. Kant, Immanuel, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.437.
9. Cfr. Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Vol.1, Esperia Edizioni, Milano, 1999, p.12.
10. Cfr. Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002.
11. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e il mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, p.59.
12. Cfr. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami, Tokyo, 1946.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.
Ikeda, Daisaku, La rivoluzione umana, Esperia Edizioni, Milano, 1994.
Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Esperia Edizioni, Milano, 1999.
Sakaiya, Taichi, Taihen na jidai, Kodansha, Tokyo, 1998.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.
Shibayama, Zenkei, Un fiore non parla. Saggi zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999.
Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tetsugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.

giovedì 17 dicembre 2009

Tifoserie politiche

Lettera pubblicata dal quotidiano "Corriere della Sera".

Cfr. Cristiano Martorella, Tifoserie politiche, in "Corriere della Sera", giovedì 17 dicembre 2009, p.43.

Tifoserie politiche
La politica non è uno scontro fra tifoserie in cui c’è la squadra di chi vince e di chi perde. Quando la politica degenera e diventa incapace di vedere oltre la faziosità del proprio schieramento, allora tutti perdono. Esasperare i toni della politica ha conseguenze gravissime.
Alimentare la violenza e l’odio può condurre a nefasti risultati. Il terrorismo, infatti, si nutre di questo clima di intolleranza e fanatismo.
Cristiano Martorella

mercoledì 16 dicembre 2009

Ferita alla società

Lettera pubblicata dal quotidiano "Il Sole 24 Ore".

Cfr. Cristiano Martorella, Quella ferita alla società aperta, in "Il Sole 24 Ore", martedì 15 dicembre 2009, p.16.

Quella ferita alla società aperta
Il clima politico è degenerato. Bisogna riportare la discussione alla razionalità e al dibattito civile. Così non sta avvenendo, e i drammatici risultati si vedono.
Cristiano Martorella

venerdì 11 dicembre 2009

Agitare le masse

Lettera pubblicata dal quotidiano "Il Secolo XIX".

Cfr. Cristiano Martorella, Saper agitare le masse non produce buona politica, in "Il Secolo XIX", giovedì 10 dicembre 2009, p.22.

Saper agitare le masse non produce buona politica
Le masse sono stupide per definizione, essendo un'accozzaglia di umori irrazionali istigata all'odio. Freud insegna che la civiltà è legata al controllo degli istinti primitivi. Soltanto l'ignoranza e la mancanza di studi permette quindi che si possa ancora sostenere che il consenso delle masse sia qualcosa di buono. Purtroppo i politici italiani sembrano mancare dell'adeguata preparazione, e continuano ad aizzare le masse all'odio dell'avversario o di presunti nemici della società. Appare palese che entrambe le parti sono cadute in questo abisso dell'animo umano costituito dai peggiori sentimenti. Qualcuno ha apprezzato questa capacità di agitare le masse, ma sul lungo periodo i risultati di una simile politica sono sempre disastrosi e incontrollabili.
Cristiano Martorella

venerdì 4 dicembre 2009

Le crisi da speculazione

Lettera pubblicata dal quotidiano "Il Secolo XIX".

Cfr. Cristiano Martorella, Le crisi da speculazione non sono prevedibili, in "Il Secolo XIX", lunedì 30 novembre 2009, p.20.

Le crisi da speculazione non sono prevedibili
Dal Dubai arriva una nuova speculazione immobiliare, la conseguente bolla speculativa, e l'esplosione di una crisi finanziaria. Non è vero che gli economisti e gli analisti non sono in grado di prevedere le crisi. Semplicemente c'è chi cerca di nascondere le operazioni che portano al disastro collettivo, purché si garantisca l'arricchimento di pochi a scapito di molti. In tal caso la scienza economica non ha alcuna colpa.
Cristiano Martorella